Se
in Italia sognare fosse stato mai considerato un fattore di produzione, come il
capitale o le materie prime, forse ora subiremmo ugualmente le conseguenze
della crisi economica internazionale e di quella politica europea, ma saremmo
probabilmente meno spenti, meno arresi, meno conservatori (nel senso
etimologico del termine). Perché in Italia sognare è vietato. Me ne sono resa
definitivamente conto parlando con una laureanda in infermieristica,
attualmente impegnata nel tirocinio in un importante ospedale romano. Mentre
raccontava mi tornavano alla mente le immagini delle inchieste di questi giorni
sui pronto soccorso delle strutture sanitarie della capitale, e tutto mi
appariva più chiaro mentre mi spiegava che la maggior parte dei suoi colleghi
vive il lavoro che si prepara a fare, pur non disprezzandolo, come un ripiego,
qualcosa che vada a sublimare la frustrazione di un sogno che spesso non si è
avuto nemmeno il coraggio di tentare di realizzare. Perché qualcosa bisogna pur
fare, i sogni non sfamano e non risolvono i problemi concreti della vita. A
ragionare così sono soprattutto quelli che hanno una spiccata tendenza all'arte
e alla cultura. Ma in arte e cultura, in Italia, non si investe più nemmeno un
sogno. Tanto è impossibile. Meglio una vita piatta e grigia, senza
soddisfazioni ma anche senza scossoni, che una battaglia infinita per affermare
una visione delle proprie inclinazioni che non troverà mai spazio.
Si
potrebbe concludere che gli artisti sono dei rinunciatari, ma il problema è un
tantino più ampio. Perché la burocrazia, l'ingiustizia e la difficoltà ad
ottenere giustizia spezzano le ali a tutti i livelli e a tutte le categorie.
Sono demotivati i primari, che hanno un potere limitato nella gestione della
struttura e del personale, finendo col disinteressarsi di qualcosa che sembra
camminare su storture irremovibili, e concentrarsi sul lavoro privato, molto
più remunerativo e soddisfacente; sono frustrati gli aspiranti imprenditori,
che non riescono a ottenere il finanziamento di un progetto, di un'idea, perché
le banche i soldi li prestano solo a chi ce l'ha; sono stanchi i professionisti,
alle prese ogni giorno con l'inefficienza e il grigiore della pubblica
amministrazione; sono spenti i dipendenti, quelli che vorrebbero mettere
qualcosa di proprio in ciò che fanno, quelli che vorrebbero emergere,
distinguersi, e vengono guardati come una minaccia allo status quo del
"tanto non serve a niente e non gliene frega niente a nessuno"; sono
arresi i giovani, cui i genitori, da una parte, hanno insegnato ad ambire il
posto fisso, perché l'esperienza suggerisce che fare castelli in aria è inutile
se non conosci qualcuno, e la scuola, dall'altra, gli ha comunicato tutta
l'impotenza, la frustrazione e talvolta l'impreparazione degli insegnanti. Ed
anche insegnare non importa più a nessuno, se un preside non ha il potere di
imporre e di far rispettare delle regole nel suo istituto. Tirare a campare,
vietato sognare. Ecco perché l'Italia non si risolleva, perché non crede e non
coltiva speranze, perché vede se stessa come un malato terminale il cui cancro
è talmente diffuso da non poter più essere estirpato. Così si spengono le
menti, l'innovazione, le idee, la crescita, il pil; così la società si
incattivisce e dilagano illegalità, violenza, decadenza.
Certo,
qualcuno, nonostante tutto, ce l'ha fatta, qualcun altro è andato a realizzare
il proprio sogno altrove, ma la maggioranza si è arresa allo status quo. Perché
per campare in Italia bisogna scendere a patti e bruciarsi le ali, oppure
essere disposti a combattere ogni giorno senza alcuna certezza.
E
pensare che ci sono nazioni che sulla visione di un sogno impossibile hanno
costruito la propria potenza, come quei pionieri che sognarono di dissodare e
coltivare terre aride e inospitali, ci riuscirono, e da allora continuano a
pensare che nulla sia impossibile.