venerdì 24 febbraio 2012

Vietato sognare


Se in Italia sognare fosse stato mai considerato un fattore di produzione, come il capitale o le materie prime, forse ora subiremmo ugualmente le conseguenze della crisi economica internazionale e di quella politica europea, ma saremmo probabilmente meno spenti, meno arresi, meno conservatori (nel senso etimologico del termine). Perché in Italia sognare è vietato. Me ne sono resa definitivamente conto parlando con una laureanda in infermieristica, attualmente impegnata nel tirocinio in un importante ospedale romano. Mentre raccontava mi tornavano alla mente le immagini delle inchieste di questi giorni sui pronto soccorso delle strutture sanitarie della capitale, e tutto mi appariva più chiaro mentre mi spiegava che la maggior parte dei suoi colleghi vive il lavoro che si prepara a fare, pur non disprezzandolo, come un ripiego, qualcosa che vada a sublimare la frustrazione di un sogno che spesso non si è avuto nemmeno il coraggio di tentare di realizzare. Perché qualcosa bisogna pur fare, i sogni non sfamano e non risolvono i problemi concreti della vita. A ragionare così sono soprattutto quelli che hanno una spiccata tendenza all'arte e alla cultura. Ma in arte e cultura, in Italia, non si investe più nemmeno un sogno. Tanto è impossibile. Meglio una vita piatta e grigia, senza soddisfazioni ma anche senza scossoni, che una battaglia infinita per affermare una visione delle proprie inclinazioni che non troverà mai spazio.
Si potrebbe concludere che gli artisti sono dei rinunciatari, ma il problema è un tantino più ampio. Perché la burocrazia, l'ingiustizia e la difficoltà ad ottenere giustizia spezzano le ali a tutti i livelli e a tutte le categorie. Sono demotivati i primari, che hanno un potere limitato nella gestione della struttura e del personale, finendo col disinteressarsi di qualcosa che sembra camminare su storture irremovibili, e concentrarsi sul lavoro privato, molto più remunerativo e soddisfacente; sono frustrati gli aspiranti imprenditori, che non riescono a ottenere il finanziamento di un progetto, di un'idea, perché le banche i soldi li prestano solo a chi ce l'ha; sono stanchi i professionisti, alle prese ogni giorno con l'inefficienza e il grigiore della pubblica amministrazione; sono spenti i dipendenti, quelli che vorrebbero mettere qualcosa di proprio in ciò che fanno, quelli che vorrebbero emergere, distinguersi, e vengono guardati come una minaccia allo status quo del "tanto non serve a niente e non gliene frega niente a nessuno"; sono arresi i giovani, cui i genitori, da una parte, hanno insegnato ad ambire il posto fisso, perché l'esperienza suggerisce che fare castelli in aria è inutile se non conosci qualcuno, e la scuola, dall'altra, gli ha comunicato tutta l'impotenza, la frustrazione e talvolta l'impreparazione degli insegnanti. Ed anche insegnare non importa più a nessuno, se un preside non ha il potere di imporre e di far rispettare delle regole nel suo istituto. Tirare a campare, vietato sognare. Ecco perché l'Italia non si risolleva, perché non crede e non coltiva speranze, perché vede se stessa come un malato terminale il cui cancro è talmente diffuso da non poter più essere estirpato. Così si spengono le menti, l'innovazione, le idee, la crescita, il pil; così la società si incattivisce e dilagano illegalità, violenza, decadenza.
Certo, qualcuno, nonostante tutto, ce l'ha fatta, qualcun altro è andato a realizzare il proprio sogno altrove, ma la maggioranza si è arresa allo status quo. Perché per campare in Italia bisogna scendere a patti e bruciarsi le ali, oppure essere disposti a combattere ogni giorno senza alcuna certezza.
E pensare che ci sono nazioni che sulla visione di un sogno impossibile hanno costruito la propria potenza, come quei pionieri che sognarono di dissodare e coltivare terre aride e inospitali, ci riuscirono, e da allora continuano a pensare che nulla sia impossibile. 

martedì 21 febbraio 2012

Il sogno europeo


Alla fine l’accordo è arrivato. Quello che per settimane è sembrato un gioco crudele, stupido e pericoloso quanto può esserlo spingere un cane all’angolo e continuare a bastonarlo senza pensare che proverà a mordere, prima di soccombere, la scorsa notte si è risolto nella concessione ad Atene di un pacchetto di aiuti per 130 miliardi di euro. E’ certamente presto per sapere se saranno sufficienti (ci sono un certo numero di variabili a riguardo) e il tutto dovrà essere accompagnato dalla realizzazione degli interventi di risanamento su cui il governo greco si è impegnato e che ha già portato il paese alla fame e alla pazzia, ma, almeno per oggi, si tira un sospiro di sollievo. Certo, la contropartita è altissima, non solo in termini sociali ma anche dal punto di vista della sovranità, che sarà fortemente limitata dalla presenza della troika europea, che vigilerà, valuterà e presumibilmente imporrà, laddove lo riterrà opportuno, le misure da intraprendere. Ma, a parte tutto, la domanda è: la gestione del caso greco, l’umiliazione e la distruzione economica e psicologica del tessuto sociale di un paese membro, le divisioni, i tempi, i diktat, i chiari di luna, la lenta agonia cui la Grecia è stata sottoposta - fino al punto di dubitare che il salvataggio ci sarebbe stato - rappresenta o no un tradimento profondo dei principi su cui il sogno europeo avrebbe dovuto fondarsi? Un sogno, è bene ricordarlo, nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale, congelato dalla guerra fredda, che in questi ultimi vent'anni ha avuto la sua grande occasione per essere realizzato, e non l'ha colta.
Nessuno nega il fatto che la Grecia sia la prima responsabile della sua attuale situazione, ma un’Europa che non ha sfruttato due decenni per procedere ad una unificazione politica, ideale, di intenti, oltre che economica, che non ha saputo fare del Parlamento europeo - unico organo democraticamente eletto - il centro delle decisioni e del potere, che non ha voluto una banca in grado di farsi carico dei debiti sovrani, e che ha vivacchiato sulle divisioni, gli egoismi e le contraddizioni dei paesi membri, non può dirsi innocente. A maggior ragione visto che anche economicamente parlando il processo di unificazione lascia molto a desiderare. Tutto basato sul rigore e poco sulla crescita, con i paesi più forti che non ci stanno a rinunciare alla propria supremazia, al protezionismo nei confronti delle proprie produzioni e istituzioni (come le banche), e che hanno accettato un’ammucchiata di 27 paesi (non si poteva proprio procedere più lentamente?) con economie e realtà politiche fortemente diverse senza pensare che questo avrebbe avuto forti ripercussioni sulla crescita e la stabilità dell’Unione. Si dice che la maggior parte dei paesi membri fatichi troppo a cedere porzioni della propria sovranità all’Europa, ma non è così sorprendente visto che la UE non è una unione democratica di Stati con pari dignità, pari diritti e pari doveri, ma un direttorio che viaggia a differenti velocità a seconda degli interessi di Francia e Germania.
Oggi, tuttavia, c’è qualcosa che accende la speranza ben più degli aiuti concessi alla Grecia; è l’iniziativa voluta da Monti e Cameron (casualmente l’unico leader europeo a non aver firmato il patto di stabilità a dicembre), una lettera che lancia senza giri di parole proposte importanti per la crescita dell’eurozona la cui portata ha un valore talmente politico che Francia e Germania non l’hanno firmata. Per una volta l’ennesima prova delle divisioni che caratterizzano l’Europa non è un fatto negativo, ma dimostra che l’iniziativa politica non è insindacabilmente nelle mani della Merkel e di Sarkozy, e che la loro supremazia è in parte fondata sull’atteggiamento troppo sottomesso degli altri paesi europei. Se la Gran Bretagna e l’Italia, che si è fatta co-promotrice di questo documento (e anche questa è una cosa che non si vedeva da tempo), con i paesi che lo hanno firmato, sapranno mantenere ferme le loro posizioni e alta la pressione nei confronti di Francia e Germania, è possibile che i cittadini europei vedranno attuarsi iniziative che aspettano da circa vent’anni.

lunedì 6 febbraio 2012

Dateci la riforma delle Nazioni Unite

Questo articolo l'ho scritto nel marzo del 2006, ma lo riposto perché, nonostante situazioni e personaggi siano  diversi, il contenuto, purtroppo, mi sembra drammaticamente attuale.

Ma che altro dovrà succedere? A far scattare una riforma totale dell'Onu avrebbe dovuto bastare la caduta del Muro di Berlino, sedici anni fa, e invece di «acqua» sotto i ponti ne è passata ancora tantissima: le guerre jugoslave, le pulizie etniche, le persecuzioni religiose, le guerre tribali, il «riscatto» del fondamentalismo islamico nei paesi arabi, e via fino all'11 settembre, le guerre in Iraq e in Afghanistan, gli attentati a Madrid e Londra, e la crescente pressione del terrorismo sull'Occidente. Di fronte a tutto questo le Nazioni Unite si sono rivelate inadeguate, impotenti, indecise, in ritardo e, nella migliore delle ipotesi, impossibilitate ad agire e a svolgere un'efficace azione preventiva o, ove necessario, coercitiva.

Non è una questione di volontà, ma di struttura, perché fino a quando l'Onu rispecchierà una realtà planetaria che non esiste più, cioè la suddivisione del mondo in zone d'influenza e il confronto minaccioso tra due sistemi reciprocamente esclusivi - il capitalismo e il comunismo - non potrà mai essere efficiente. La Russia di Putin non è l'Unione Sovietica di Breznev, eppure il suo potere all'interno dell'organismo internazionale è rimasto lo stesso, e al contrario di ciò che si dice, l'implosione del diretto avversario non ha rafforzato il potere e la volontà degli Stati Uniti, tutt'altro. L'America non rappresenta più, che la cosa piacesse o meno, l'unica alternativa al pericolo sovietico, e la fine di questa funzione ha provocato un disgregamento dei paesi democratici ed un allontanamento dal vecchio riferimento; i paesi europei si sono sentiti liberi dal pericolo e hanno ritenuto non solo di potersi disfare della protezione americana, ma anche di contrastare gli Stati Uniti proprio sul terreno delle crisi internazionali. Così l'Onu si è ritrovata priva dell'equilibrio precario ma tangibile della guerra fredda, e si è trasformata in un coacervo di paesi che fanno il proprio piccolo tornaconto, con il risultato che il peso delle nazioni democratiche si è notevolmente ridotto a favore dei regimi dittatoriali, che purtroppo nel mondo sono la maggioranza.
Tra scandali, discredito e palese burocratizzazione dei meccanismi decisionali dell'Onu, ci siamo trascinati fino ad oggi e siamo anche contenti perché è stata varata una nuova Commissione sui diritti umani che andrà a sostituire quella di Ginevra, anch'essa, per vari motivi, del tutto screditata. Ma c'è poco da festeggiare, perché se quella vecchia era presieduta da un paese come la Libia, quella nuova è - con molta probabilità - destinata a ripercorrerne il cammino. Per il semplice fatto che tra i 47 paesi che la compongono ve ne sono di quelli che i diritti umani li calpestano quotidianamente, e questo risultato è il prodotto inevitabile del voto dell'Assemblea Generale a maggioranza semplice, che per forza di cose include paesi tirannici.
In sostanza si è sciolta una commissione per creare il suo clone, ed è ovvio che gli Stati Uniti non siano favorevoli. Il Manifesto naturalmente si è divertito a titolare che l'America ha detto no ai diritti umani, ma la verità è che se c'era un'occasione di dimostrare che, nonostante la mancata riforma, le Nazioni Unite sono intenzionate a rendersi più efficienti e credibili, era proprio nella istituzione di questa nuova Commissione. Una commissione che avrebbe dovuto essere istituita e composta con il voto esclusivo delle nazioni che rispettano i diritti umani e che intendono farli valere.
Nel mondo di oggi la contrapposizione non è più tra due ideologie opposte, ma tra l'intero Occidente e il fanatismo retrograda e illiberale che gli ha dichiarato guerra. E' una realtà che l'Onu avrebbe dovuto recepire; comporre una nuova commissione solo con paesi democratici e liberali sarebbe stato un segno importantissimo, e avrebbe fatto ben sperare per un futuro riassetto, per una riforma che grida vendetta da sedici anni. Invece, ancora una volta, ognuno ha giocato la sua partita individuale: l'Europa, tanto vogliosa di iniziative autonome, ma incapace di scelte coraggiose, si è adeguata come sempre; Kofi Annan, che dopo una serie infinita di scandali non si capisce bene cosa ci faccia ancora lì, festeggia il nulla, e gli Stati Uniti, fedeli alla concretezza della propria visione delle cose, restano nuovamente isolati. Davvero un bel successo.

sabato 4 febbraio 2012

Avvocati in rivolta. Vi rispiego perchè


Sarebbe buona regola non tornare su un argomento di cui si è trattato anni prima (al tempo delle liberalizzazioni di Bersani), e di cui già allora, causa conflitto di interessi, avrei preferito non occuparmi, ma - oggi come allora - quello che leggo sui giornali e che sento dire in giro mi spinge a non esimermi. Mi sono ormai definitivamente convinta che non sia possibile legiferare in materia forense, né scriverne, senza aver mai messo piede in un tribunale, soprattutto in quello civile di Roma, perché qualunque politico, tecnico o giornalista che vi avesse ficcato il naso saprebbe con certezza una serie di cose: 1. L'accesso all'avvocatura non va facilitato, anzi. Nella sola città di Roma vi sono più avvocati che in tutta la Francia, e questo perché la difficoltà dell'esame di abilitazione alla professione varia enormemente a seconda delle città in cui lo si affronta. Se le istituzioni si preoccupassero di impedire la transumanza verso città con una percentuale di promossi del 97% avremmo meno avvocati ben più qualificati. 2. Non si può ridurre il praticantato a 18 mesi e meno che mai ad un anno, compensando sei mesi con il tirocinio all'università, perché un laureato in giurisprudenza è una tabula rasa cui le nozioni giuridiche che ha imparato torneranno utili solo dopo aver imparato a gestire gli adempimenti del tribunale, la composizione e gestione delle pratiche e la stesura degli atti, tutta roba che si apprende solo sul campo. 3. "Vendere" giustizia non può essere come vendere affettati. L'avvocatura non può essere ridotta ad una professione commerciale, per questo la questione dei soci di capitale è vista con estremo sospetto. Ci sono tante ottime cose nel mondo anglosassone che non possono essere semplicemente trapiantate in Italia. 4. Finché i tempi della giustizia varieranno da sei mesi a ventisei anni (caso limite ma realmente accaduto) sarà difficile che gli avvocati possano fare un preventivo credibile ai propri clienti, tanto più che la maggior parte dei soldi versati agli avvocati nel tempo di durata della causa servono a sostenere le spese della giustizia, che non sono affatto basse. 5. Ho letto che se ci sono tanti laureati in giurisprudenza è perché la professione evidentemente continua ad essere remunerativa. Chi ha scritto ciò non sa che gli studenti di giurisprudenza non hanno la più vaga idea di come sia veramente l'attività, che la maggior parte di quelli che diventano avvocati decidono in pochi anni di rinunciare alla libera professione, e che la facoltà di giurisprudenza è una delle più gettonate perché anche chi non sa cosa farà pensa gli possa tornare utile per eventuali concorsi. 6. Fa semplicemente ridere, se non piangere, l'idea che la lunghezza dei processi sia da imputare agli avvocati perché in questo modo guadagnerebbero di più. E' totalmente falso. La lunghezza dei processi danneggia l'avvocato, il quale il vero guadagno lo vede solo alla fine della causa, quando vince, perché non di rado quando perde il cliente rifiuta di pagarlo. 7. Qualcuno pianti le tende qualche giorno in tribunale e si faccia un'idea della realtà del sistema giudiziario, prima di legiferare o di chiacchierare.