Non sempre i mali vengono per nuocere.
Se toccare il fondo serve a risalire, arrivarci tanto vicino da sfiorarlo può
essere una buona occasione per dipanare matasse fino a ieri insolvibili. Ci sono
voluti due mesi per avere l’unico governo possibile, e questo lasso di tempo è
sembrato una eternità, uno spreco ingiustificabile di tempo, di soldi, di
credibilità, di possibilità per la ripresa economica e sociale del paese, ed è
innegabile che sia stato così, ma, col senno di poi, quanto accaduto in questi
sessanta giorni è stato indispensabile a imprimere un'accelerazione storica e a
consegnarci una serie di informazioni che risulteranno fondamentali nel rapporto
prossimo futuro tra italiani e politica. I nodi
sono venuti al pettine.
Lo scontro finale tra l’ottusità della nomenklatura Pd
e la realtà è il giusto epilogo di una falsa vittoria bersaniana alle primarie
dello scorso autunno. Il partito è letteralmente imploso nell’incapacità del
segretario di guardare oltre le caratteristiche più conservatrici di una parte
del proprio elettorato: antiriformismo e antiberlusconismo, al punto da
spingere l’ala più insofferente del partito alla disobbedienza e al rifiuto di
votare compatti il presidente della Repubblica indicati dallo stesso Bersani.
Marini prima, che non aveva speranze essendo stato un nome concordato con quel
Pdl sulle cui ipotesi di alleanze il Pd ha fatto muro dal giorno dopo le
elezioni, ed è impossibile convincere dalla sera alla mattina persino i tuoi
stessi fedelissimi a mangiare nel piatto in cui hai a lungo sputato. E Prodi
poi, la cui candidatura è stata una follia assoluta in un momento storico in
cui più che mai era necessario unire il paese, e chi credeva che il professore
fosse inviso soltanto all’elettorato del centrodestra ha avuto una di quelle
sorprese che portano alle dimissioni. E’ stato un percorso esplosivo quello che
ha portato alla riconferma di Giorgio Napolitano, un anziano signore che in un
momento di buio assoluto si è alzato in piedi e ha fatto uno di quei discorsi
che nella storia politica e istituzionale di un paese lascia il segno.
Se il
governo Letta avrà successo gli italiani dovranno ringraziare in ginocchio uno
che in gioventù, presumibilmente, ha sperato di vedere l’Armata Rossa marciare
su S. Pietro, e che è stato lieto di vederla soffocare la rivoluzione ungherese
del 1956, a dimostrazione di cosa possa significare, nella storia di un paese,
l’evoluzione umana e politica di un singolo individuo. Questo giovane nemico
dell’Occidente è oggi l’uomo politico con il più alto senso delle istituzioni e
della democrazia che l’Italia possa vantare, oltre che uno stratega non
indifferente. Perché non ha sbagliato un colpo. Non ha incaricato Amato, di cui
gli italiani non hanno un bel ricordo, e non ha bruciato Renzi, il quale, davanti
a sé, ha letteralmente un compito di portata storica: traghettare
definitivamente il Pd verso una piena socialdemocrazia riformista. Costi quel
che costi. Ora
Enrico Letta, il Pd e il Pdl hanno una grande chance, forse l’ultima.
Napolitano ha preteso tre cose: un governo di larghe intese, un governo
politico e un governo giovane. Ed è in queste direzioni che il presidente del
Consiglio si è mosso. C’è molto da fare. Anzi, è tutto da rifare. Non solo a
livello politico, economico e sociale, ma anche civile. I primi sessanta giorni
di performance grillina sono infatti la dimostrazione plastica di quanto
vent’anni di guerra civile strisciante abbiano imbastardito la cosiddetta
società civile.
Nonostante non lo abbia e non lo avrei comunque votato, sono stata
personalmente contenta dell’affermazione del M5S alle elezioni; pensavo che una
spina nel fianco di una politica incancrenita e sorda ai bisogni reali della
normalità sarebbe stata un pungolo formidabile al rinnovamento strutturale dei
partiti e del loro rapporto con i cittadini. Pensavo che la società civile
fosse mediamente migliore della classe dirigente che la governava, e non
condividevo la spocchia di chi bollava le critiche - anche feroci - alla
politica come populismo qualunquista. Ero dunque ben disposta nei confronti dei
deputati grillini, ma dopo appena due mesi mi rendo conto che la società civile
da essi rappresentata è un’accozzaglia di ignoranza istituzionale,
pressapochismo, cultura del complotto, mitismo internauta e disprezzo
aprioristico dell’homo politicus. Il
loro senso della verità e della trasparenza si rimette integralmente alla
controinformazione della Rete e ad un Grande Fratello allargato che raramente
rende giustizia alla verità. Il tutto poi per prendere comunque ordini e direttive
da una singola persona al di fuori del Parlamento.
Ma questo imbarbarimento,
che bolla come inciucio anche la sola idea che i due maggiori partiti italiani,
usciti praticamente pari dalla sfida elettorale, possano trovare una intesa per
far uscire insieme il paese dal rischio del baratro, è figlio di vent’anni di
contrapposizione frontale, di odio, di sprezzo, di veti incrociati, dell’idea che
gli elettori altrui siano, nella migliore delle ipotesi, figli di un Dio
minore. Questo imbarbarimento è figlio dei giornalisti, degli scrittori, degli
intellettuali e della classe dirigente che dell’odio politico hanno fatto
l’architrave della propria produzione culturale e della propria fortuna. Questo
imbarbarimento è figlio della classe politica tutta, che si è chiusa nella
torre eburnea dei suoi privilegi e della sua ignoranza, lasciando tanti, troppi
italiani come cani stretti in un angolo senza via d’uscita. E in un paese che
perde la speranza c’è sempre qualcuno che non ce la fa e impugna una pistola.
Questo imbarbarimento deve finire. Queste
sono le sfide titaniche che aspettano il governo Letta. Il quale non può e non
deve fallire, e al quale molto dovremo se per sbaglio, un domani, ai nostri
figli sarà concesso di vivere in un paese normale.