Siamo
fatti. Se, fino a pochi giorni fa, nel caos assoluto che regna sovrano nella
politica e nei partiti italiani, le primarie del Pd rappresentavano un barlume
di speranza, un appiglio psicologico, un antidolorifico mentale anche per gli
elettori delusi del centrodestra, ora la realtà torna prepotente a picchiare in
piena faccia.
Il
confronto tra Renzi e Bersani poteva rappresentare qualcosa di determinante
nell’attuale fase politica; non solo una grande prova democratica cui il
partito meno incline – per bagaglio storico e culturale – a questo tipo di
giudizio popolare aveva deciso di sottoporsi, bruciando nei tempi e nei modi il
deserto di idee e di uomini cui è ridotto il Pdl, ma anche un esperimento
concreto dal quale partire per ripensare la legge elettorale e l’architettura
parlamentare. Insomma, un regalo di cui questo paese aveva veramente bisogno. Una
chimera inseguita fino a quando abbiamo creduto, o ci siamo voluti illudere,
che le primarie del Partito democratico, per la prima volta, sarebbero state effettivamente
aperte, autentiche. E d’altronde i presupposti per crederci non mancavano.
Quando mai, nella sinistra italiana, si era visto un “ragazzino”, un outsider,
sfidare la nomenklatura del partito – gente cresciuta alla scuola politica e
umana del Pci – riempire le sale parlando di rottamazione, di ricambio
generazionale, di mercato, lavoro ed economia in termini liberali? E quando mai
si era visto il partito incassare con una certa nonchalance, accettare la sfida
e dichiarare aperta la partita? Per un attimo è sembrato persino che la
scommessa di Veltroni, quel padre del partito democratico immediatamente punito
e messo da parte per aver creduto in una definitiva svolta socialdemocratica
dei resti del Pci - oltre che per essersi illuso di poterla attuare con l’aiuto
degli integralisti cattolici della Margherita – potesse concretizzarsi proprio
quando il restante quadro politico andava disintegrandosi.
Invece
no. Una mattina i dirigenti del Pd si sono svegliati e hanno fatto due conti,
accorgendosi che Renzi, le maledette primarie, poteva vincerle per davvero.
Panico. E’ scattato il delirio. Perché che il sindaco di Firenze potesse
minacciare veramente la leadership di Bersani - e non solo - non ci avevano
creduto nemmeno per un minuto. Era tutta una farsa. Le primarie, secondo loro,
dovevano andare come le volte precedenti: tutto chiaro pronto e stabilito, nome
cognome e ruolo. Senza sorprese e senza stress per le enormi aspettative che la
loro falsa bonomia aveva creato nell’intero corpo elettorale italiano. Bisognava
correre ai ripari, e poche mattine dopo ci siamo svegliati noi con l’improvvisa
candidatura di Vendola e la mega assemblea per stabilire le regole delle
primarie. Quelle nuove, perché le vecchie, all’improvviso, non andavano più
bene. Lo si è fatto, è stato detto, per permettere a Renzi di candidarsi (il
che già dovrebbe far riflettere sulla liberalità dello statuto del Pd), e sarà
certamente per questo che è stato proposto e votato (pare) il doppio turno e
l’impossibilità per chi non si è registrato al primo di votare al secondo. E di
sicuro non è stato fatto per disincentivare la votazione dei potenziali
elettori di altri partiti, e men che meno per fare in modo che Bersani e
Vendola, al secondo turno, si uniscano per vincere inesorabilmente. Con la
stessa ottica, non è per questa eventuale alleanza che il segretario del Pd e
il leader di Sel hanno firmato una carta d’intenti, per il futuro governo, che è
una dismissione oggettiva dell’operato del governo Monti e una presa di
distanza totale dalla visione renziana dei problemi del paese. Ma poi, è
davvero così? Perché in realtà nessuno, finora, ha capito veramente con quali
regole si andrà a votare alle primarie. Nel caos generale quello che era uno
spiraglio è diventato una nebulosa dalla quale nemmeno i dirigenti del partito
stesso riescono ad uscire. Il documento firmato all’assemblea non è chiaro, è
suscettibile di diverse interpretazioni e il risultato è che i giorni passano
in trattative serrate quanto segrete. Sembra una barzelletta invece è un fatto
storico.
Perché
vedere in un servizio televisivo un signore che spiega al giornalista, senza
alcuna reticenza, che tutti i settori sindacali della Cgil voteranno in blocco
per Bersani, significa che la militarizzazione partitica e sindacale dei tempi
del Pci resiste al tempo e agli uomini. E che gli uomini non hanno alcuna
intenzione, al di là delle apparenze e dei cambi di nome e simbolo, di
intaccarlo. Anzi. Sono impazziti proprio quando hanno capito che la struttura
rischiava di essere minata sul serio da un “pazzo” che si è messo a dire che
devono andare tutti a casa, e hanno fatto quadrato. Una volta certi eccessi di
zelo venivano puniti con metodi draconiani, oggi bastano Vendola e le regole
delle primarie, ma la sostanza non è cambiata, e il nodo della questione è
tutto qua.
Resta
il fatto che Renzi ha rotto il recinto e i buoi, impazziti, sono usciti.
Veltroni, che ha saputo aspettare con calma e sangue freddo per quattro anni,
si è preso la sua rivincita annunciando di non ricandidarsi, uscendo così a
testa alta dal Parlamento e bruciando sul tempo e lo stile tutti i suoi
colleghi; tanto di cappello. Mentre d’Alema, il cinico, affettato e sprezzante
d’Alema, ha perso la testa e ha dichiarato guerra a Renzi perché non accetta
che questo ragazzino impudente possa davvero obbligare la classe dirigente del
Pd, quella che a suo tempo ha saputo aspettare il proprio turno con due piedi
in una scarpa, ad andare a casa in massa, e gli altri, sostanzialmente, non
sanno che pesci prendere. Uno scompiglio totale. Il destino del Pd, ma anche,
per molti aspetti, dell’Italia intera, ora, è nelle mani degli elettori
democratici che voteranno alle primarie. Sapremo così, una volta per tutte, se per
la prima volta nella storia italiana l’elettorato di sinistra sarà più moderno
e riformista della sua classe dirigente, oppure se dal caos attuale passeremo
direttamente al disastro annunciato delle prossime elezioni.