sabato 20 ottobre 2012

L'ipoteca sulle primarie del Pd


Siamo fatti. Se, fino a pochi giorni fa, nel caos assoluto che regna sovrano nella politica e nei partiti italiani, le primarie del Pd rappresentavano un barlume di speranza, un appiglio psicologico, un antidolorifico mentale anche per gli elettori delusi del centrodestra, ora la realtà torna prepotente a picchiare in piena faccia.
Il confronto tra Renzi e Bersani poteva rappresentare qualcosa di determinante nell’attuale fase politica; non solo una grande prova democratica cui il partito meno incline – per bagaglio storico e culturale – a questo tipo di giudizio popolare aveva deciso di sottoporsi, bruciando nei tempi e nei modi il deserto di idee e di uomini cui è ridotto il Pdl, ma anche un esperimento concreto dal quale partire per ripensare la legge elettorale e l’architettura parlamentare. Insomma, un regalo di cui questo paese aveva veramente bisogno. Una chimera inseguita fino a quando abbiamo creduto, o ci siamo voluti illudere, che le primarie del Partito democratico, per la prima volta, sarebbero state effettivamente aperte, autentiche. E d’altronde i presupposti per crederci non mancavano. Quando mai, nella sinistra italiana, si era visto un “ragazzino”, un outsider, sfidare la nomenklatura del partito – gente cresciuta alla scuola politica e umana del Pci – riempire le sale parlando di rottamazione, di ricambio generazionale, di mercato, lavoro ed economia in termini liberali? E quando mai si era visto il partito incassare con una certa nonchalance, accettare la sfida e dichiarare aperta la partita? Per un attimo è sembrato persino che la scommessa di Veltroni, quel padre del partito democratico immediatamente punito e messo da parte per aver creduto in una definitiva svolta socialdemocratica dei resti del Pci - oltre che per essersi illuso di poterla attuare con l’aiuto degli integralisti cattolici della Margherita – potesse concretizzarsi proprio quando il restante quadro politico andava disintegrandosi.
Invece no. Una mattina i dirigenti del Pd si sono svegliati e hanno fatto due conti, accorgendosi che Renzi, le maledette primarie, poteva vincerle per davvero. Panico. E’ scattato il delirio. Perché che il sindaco di Firenze potesse minacciare veramente la leadership di Bersani - e non solo - non ci avevano creduto nemmeno per un minuto. Era tutta una farsa. Le primarie, secondo loro, dovevano andare come le volte precedenti: tutto chiaro pronto e stabilito, nome cognome e ruolo. Senza sorprese e senza stress per le enormi aspettative che la loro falsa bonomia aveva creato nell’intero corpo elettorale italiano. Bisognava correre ai ripari, e poche mattine dopo ci siamo svegliati noi con l’improvvisa candidatura di Vendola e la mega assemblea per stabilire le regole delle primarie. Quelle nuove, perché le vecchie, all’improvviso, non andavano più bene. Lo si è fatto, è stato detto, per permettere a Renzi di candidarsi (il che già dovrebbe far riflettere sulla liberalità dello statuto del Pd), e sarà certamente per questo che è stato proposto e votato (pare) il doppio turno e l’impossibilità per chi non si è registrato al primo di votare al secondo. E di sicuro non è stato fatto per disincentivare la votazione dei potenziali elettori di altri partiti, e men che meno per fare in modo che Bersani e Vendola, al secondo turno, si uniscano per vincere inesorabilmente. Con la stessa ottica, non è per questa eventuale alleanza che il segretario del Pd e il leader di Sel hanno firmato una carta d’intenti, per il futuro governo, che è una dismissione oggettiva dell’operato del governo Monti e una presa di distanza totale dalla visione renziana dei problemi del paese. Ma poi, è davvero così? Perché in realtà nessuno, finora, ha capito veramente con quali regole si andrà a votare alle primarie. Nel caos generale quello che era uno spiraglio è diventato una nebulosa dalla quale nemmeno i dirigenti del partito stesso riescono ad uscire. Il documento firmato all’assemblea non è chiaro, è suscettibile di diverse interpretazioni e il risultato è che i giorni passano in trattative serrate quanto segrete. Sembra una barzelletta invece è un fatto storico.
Perché vedere in un servizio televisivo un signore che spiega al giornalista, senza alcuna reticenza, che tutti i settori sindacali della Cgil voteranno in blocco per Bersani, significa che la militarizzazione partitica e sindacale dei tempi del Pci resiste al tempo e agli uomini. E che gli uomini non hanno alcuna intenzione, al di là delle apparenze e dei cambi di nome e simbolo, di intaccarlo. Anzi. Sono impazziti proprio quando hanno capito che la struttura rischiava di essere minata sul serio da un “pazzo” che si è messo a dire che devono andare tutti a casa, e hanno fatto quadrato. Una volta certi eccessi di zelo venivano puniti con metodi draconiani, oggi bastano Vendola e le regole delle primarie, ma la sostanza non è cambiata, e il nodo della questione è tutto qua.
Resta il fatto che Renzi ha rotto il recinto e i buoi, impazziti, sono usciti. Veltroni, che ha saputo aspettare con calma e sangue freddo per quattro anni, si è preso la sua rivincita annunciando di non ricandidarsi, uscendo così a testa alta dal Parlamento e bruciando sul tempo e lo stile tutti i suoi colleghi; tanto di cappello. Mentre d’Alema, il cinico, affettato e sprezzante d’Alema, ha perso la testa e ha dichiarato guerra a Renzi perché non accetta che questo ragazzino impudente possa davvero obbligare la classe dirigente del Pd, quella che a suo tempo ha saputo aspettare il proprio turno con due piedi in una scarpa, ad andare a casa in massa, e gli altri, sostanzialmente, non sanno che pesci prendere. Uno scompiglio totale. Il destino del Pd, ma anche, per molti aspetti, dell’Italia intera, ora, è nelle mani degli elettori democratici che voteranno alle primarie. Sapremo così, una volta per tutte, se per la prima volta nella storia italiana l’elettorato di sinistra sarà più moderno e riformista della sua classe dirigente, oppure se dal caos attuale passeremo direttamente al disastro annunciato delle prossime elezioni.

domenica 14 ottobre 2012

La crisi ai tempi dei socialnetwork



Ci vogliono le spalle larghe per sopportare l’annichilimento mediatico che piove ogni giorno da giornali, tv, radio, internet e social network. Crisi economica, spread altalenante, paesi in bilico, l’intera Europa che barcolla, violenza e criminalità che aumentano in modo direttamente proporzionale all’impoverimento generale e all’incertezza imperante, l’estremismo islamico che uccide, si allarga a macchia d’olio e lavora per conquistare tutto il confine meridionale europeo nel silenzio e nel disinteresse generali, l’antisemitismo che riesplode nel cuore dell’Europa, la Siria che tortura e massacra i suoi bambini, l’Iran che gioca indisturbata al piccolo chimico con buona probabilità di essere presto in grado di cambiare drasticamente la cartina geografica del Medioriente, e molto, molto altro.
In mezzo a questa bufera quelli che riescono a tenere la testa fuori dall’acqua sono i giornalisti, che si cibano dello stesso veleno che distribuiscono con una certa estraneità, come i medici che a forza di vederne di tutti i colori smettono di immedesimarsi e impietosirsi. Bisogna pur sopravvivere. So bene che per il giornalista la priorità è la notizia, la rassegna stampa, sapere, scrivere, ragionare. In una parola, lavorare. Sì, ma oggi non mi va di lavorare. Oggi mi prendo una pausa e vesto i panni dell’altra me: la cittadina, la donna, la madre, la moglie, la persona che combatte la battaglia quotidiana per la vita, una battaglia che si è fatta sempre più difficile e che è scandita da domande oramai divenute ossessive: ce la faremo anche questo mese? L’euro sopravviverà? Siamo in grado di pagare tutto? I conti sono in ordine? I documenti fiscali sono a posto? Questa medicina sarà prescrivibile? Possiamo permetterci questa visita urgente? Ci saranno prodotti in offerta al supermercato? Questo lavoro me lo pagheranno? Quanto costa la benzina oggi? Prendo la macchina o vado a piedi? Quale scuola per nostro figlio? Ce la facciamo a fargli fare un’attività extrascolastica? Come pagheremo il mutuo se la crisi peggiorerà? Che faremo se dovessimo ammalarci? Dormirò stanotte?
No, penso di no. Meglio prendere le gocce. È così che il cittadino subisce sulla propria pelle una realtà su cui ha un potere limitato, come le notizie di cui giornalisti e commentatori parlano e dibattono in tv e sulla carta stampata, spesso con il distacco di chi sta comunque dall’altra parte della barricata, anche se poi, di fatto, non è così. Perché, con le dovute proporzioni, nei guai fino al collo ci stiamo tutti e la rabbia si diffonde in modo assolutamente democratico: senza distinzione di classe, ceto, reddito. Ma, d’altronde, come si fa a rimanere calmi con gli scandali che travolgono l’Italia da nord a sud, i partiti che si disfano, le faide interne, le scaramucce tra rappresentanti del vecchio establishment (incollati alla propria inutile superbia) e giovani rampanti non sempre sufficientemente concreti, per non parlare dei terzi incomodi che festeggiano la vittoria di Chavez sperando di riportare indietro le lancette della storia di un paio di secoli? Come si fa a non scoraggiarsi di fronte ad una politica che continua a non vedere oltre il proprio naso, isterica tra le pastoie di una legge elettorale che non si sa se riuscirà mai a partorire, e il fuggi fuggi generale di chi, in vista delle elezioni, smania per lasciare incarichi subalterni e puntare dritto al Parlamento?
È in questo quadro generale che il governo si riunisce fino a notte tarda per varare una serie di provvedimenti. Per la crescita, pensano tutti. Sbagliato. Spiccano, tra le decisioni prese, il taglio di un punto percentuale dell’Irpef per i redditi fino a 28mila euro, l’aumento dell’Iva e i tagli della nuova spending review: 600mila euro nel settore sanità e l’operazione “cieli bui”. Quest’ultima, in particolare, sembra un effettivo incentivo agli unici settori che non soffrono la crisi: criminalità e psicoanalisi. Più oscurità per tutti. Anche la minaccia di un ulteriore taglio alla sanità  dà da tremare. Essendo arcinoto che il buco nero del settore è determinato dagli sprechi e dalla malagestione, sarebbe forse opportuno concentrarsi sulla trasparenza della spesa e il controllo della dirigenza, o altrimenti farsi una passeggiata per i reparti e parlare con qualche capoinfermiere. Per scoprire che ogni singola benda viene protetta sottochiave per evitare che finisca in un altro reparto in cui mancano perché “rubate” da un altro reparto ancora e così via. Le fasce come qualsiasi altra cosa.
Spariscono persino le fotografie, quelle che testimoniano il percorso di guarigione, magari, di una ferita da decubito o da diabete e che vengono usate a scopo didattico. E l’Iva? Compensata dal taglio dell’Irpef? Nemmeno per idea. Perché l’aumento si cumula. Non solo all’aumento di un punto percentuale già effettuato dal governo Monti all’inizio del mandato, ma ai rincari determinati in ogni singolo settore. Col risultato che il prezzo del prodotto finale e’ fissato dall’insieme degli aumenti della benzina, dell’elettricità, del trasporto, delle materie prime... Con tutto ciò che ne deriva in termini di produttività, occupazione, reddito. Una rovina. Ma, per tirarmi su, posso sempre ricordare a me stessa che c’è la concreta possibilità che fra un paio di mesi l’Iran abbia messo a punto la bomba atomica, e che tutti questi problemi si trasformeranno, improvvisamente, in chiacchiere da cortile.

martedì 2 ottobre 2012

Il bisogno di sana e robusta Costituzione


La storia non perdona e prima o poi presenta il conto. E il senso profondo del momento storico che l’Italia sta vivendo è tutto in questo debito. E’ come se, dopo averlo tenuto chiuso a forza per decenni, il vaso di Pandora fosse imploso lasciando fuoriuscire tutti i mali italiani, tutti insieme: corruzione, immoralità, criminalità, inettitudine, inefficienza, malagiustizia, malasanità, crisi economica. Nulla si salva e tutto contribuisce ad impedire che un paese già molto in bilico possa veramente risollevarsi. Il posto d’onore, in questa graduatoria del male, spetta alla politica, ai partiti, ai rappresentanti delle istituzioni, a coloro che - nell’arco di vita del governo tecnico presieduto da Mario Monti - hanno saputo opporre alla sfiducia, alla disperazione e ai sacrifici degli italiani, scandali, festini, spese folli, facce da maiali, abiti da ancelle e triclini del degrado. Perché più di questo, della civiltà greco-romana, non sanno e non hanno mai capito.
E’ chiaro a tutti, ormai, che è stato di molto superato il limite della sopportazione, e che alla rabbia degli italiani manca solo un buon vettore per esplodere, ma a questo clima la politica risponde con una superbia e un’arroganza che lasciano esterrefatti. Perché? Forse perché sa che la libertà delle decisioni che prende, anche quelle più indecenti, è sancita, ebbene sì, dalla Costituzione. O, per meglio dire, dagli articoli relativi ai poteri e all’organizzazione dello Stato, che garantiscono ai parlamentari di potersi autodeterminare lo stipendio senza che un governo Monti qualsiasi possa intervenire; permettono alle regioni di costituire gruppi composti da un solo consigliere e di aumentarsi a dismisura i rimborsi elettorali senza che il governo possa impedirlo, e sono fonte diretta dell’ingovernabilità italiana e origine della sproporzione tra il potere partitocratico e quello elettorale, cioè tra la politica e i cittadini. Certo, nessuno di questi abusi di potere è stabilito dalla Costituzione, sono tutti figli di un uso della Carta magari diabolico, sì, ma pur sempre legale. Perché il problema è l’autoreferenzialità, la vaghezza e l’ampiezza dei margini d’azione riservati alla classe politica senza che il contrappeso del voto possa scalfire un sistema costruito non tanto sulle direttive costituzionali, quanto su ciò che la Costituzione non vieta.
E’ così che una classe dirigente esentata dal controllo popolare (il voto cambia maggioranze e alleanze, ma, potendosi rivolgere solo a queste per l’attuazione di riforme che limitino il loro stesso potere e la loro discrezionalità, non ottiene mai i cambiamenti sperati, nemmeno con l’arma dei referendum abrogativi, i cui risultati vengono sistematicamente ignorati o aggirati) ha approfittato degli ampi spazi di manovra riservatele da una Costituzione che rispecchiava le paure dell’autoritarismo fascista, e i reciproci pregiudizi della guerra fredda, per costruire una torre eburnea, intoccabile, di potere e privilegi. E’ per questo che, di fronte agli scandali che la colpisce, si giustifica sostenendo che la legge, purtroppo, lo consente; è per questo che ogni tentativo di riforma che incida profondamente nella vita pubblica viene bollato come un attacco alla Costituzione, al cuore della democrazia, ed è per questo che andare a votare tra cinque o sei mesi servirà solo a costituire l’ennesima accozzaglia governativa a breve termine, l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno.
Certo, qualcosa si muove. Ci sono fenomeni come Matteo Renzi o Fermare il declino, interessanti non solo per lo scombussolamento che intendono provocare nel quadro politico, ma anche e soprattutto per il tipo di istanze di cui si fanno portavoce. Riforme che vanno oltre gli schemi ideologici, tipiche di tutte le democrazie liberali occidentali, che in Italia non sono mai state portate a termine per tre ragioni: esasperazione del conflitto politico, scarsa determinazione, ingovernabilità. Un fallimento aggravato dalla cecità di chi si ostina a non vedere le proprie colpe e a non proporre soluzioni credibili. Nessuno che si alzi in piedi e abbia il coraggio di dire che l’unico voto utile, dopo Monti, sarebbe quello per eleggere una nuova assemblea costituente. Perché se il paese va cambiato profondamente, come sostengono tutti, non basta sperare che un nuovo esecutivo riesca laddove si è fallito per vent’anni; è necessario dotarlo degli strumenti necessari. La Costituzione, nella parte dei principi fondanti la repubblica, è un paradigma non soltanto da salvaguardare, ma anche da inverare. E’ straordinario come nessuno si scandalizzi per la frequenza con cui i suoi pronunciamenti siano disattesi, mentre ogni proposta di modifica è sentita come una attacco alla vita democratica del paese. Non è così. Un paese nazionalista e orgoglioso come la Francia ha cambiato la propria carta costituzionale cinque volte senza calpestare i principi di fondo che l’avevano ispirata. Perché noi no? Perché non ora che il momento storico è favorevole? Potremmo ancora averla una Costituzione che salvaguardi il decentramento impedendo la costituzione di venti miniparlamenti con relativi poteri, sprechi e spartizioni; che superi il bicameralismo perfetto, che garantisca la governabilità, che ponga limiti alla fame dei partiti e della politica, all’autoreferenzialità, all’eccesso di discrezionalità politica e giudiziaria, che garantisca effettivi poteri di controllo agli organi che pure sono stati pensati per questo scopo, e che ristabilisca un equilibrio nel rapporto tra stato e cittadino. Potremmo. Ma prima, temo, dobbiamo trovare un modo civile e democratico per spazzare via l’attuale classe dirigente.