mercoledì 30 gennaio 2013

Una campagna elettorale... da paura


Girare e parlare con la gente. Facile. Per capire quale sia l’attuale realtà italiana alla vigilia di elezioni politiche delicatissime come quelle del 24 e 25 febbraio, basterebbe entrare in qualche negozio e fare qualche domanda. Sempre che il negozio in questione ci sia ancora. Chiunque può misurare la febbre del paese in questi giorni. Bisogna solo guardarsi intorno. Enormi centri commerciali aperti tre anni fa in pompa magna ridotti a bunker di cemento dove sopravvivono un negozio o due, magari un Mc Donald’s e una caffetteria, con buona pace di investimenti milionari andati in fumo per mancato guadagno, impossibilità di pagare le spese, o perché, più sinteticamente, il gioco non vale la candela. Chiudono persino le pizzerie al taglio, fino a poco tempo fa considerate miniere d’oro, e vendere un’attività - magari per ripianare i debiti contratti con le banche per aprire - in questo momento è semplicemente impossibile. Parola del giovane, nuovo parrucchiere che ha perso il lavoro dopo la chiusura dell’importante salone per il quale lavorava, e si è messo in proprio un paio di mesi fa. Come? Con i soldi di papà, ovviamente, perché la banca credito non ne fa a nessuno, nemmeno a un giovane con oltre dieci anni di lavoro alle spalle e dei risparmi da investire in una propria attività. Niente da fare.
Il dato secondo cui chiudono circa mille imprese al giorno è palpabile, visibile, fisico. E le ragioni di questa “carneficina” sono talmente evidenti da lasciare molto perplessi sulla possibilità di una ripresa nei prossimi mesi. Pesa, su qualsiasi speranza per il futuro prossimo, l’incubo di una campagna elettorale da paura. Nel vero senso della parola. E’ difficile persino districarsi mentalmente nella foresta dell’offerta politica in campo. Da un lato, purtroppo, la storia che si ripete da vent’anni: Berlusconi, la sinistra e le reciproche alleanze; dall’altra, il nuovo che di nuovo non ha più nulla: Monti e la coalizione di centro che lo sostiene. Nuovo in effetti Monti lo era, un anno fa. Per questo le aspettative nei suoi confronti erano enormi, ma buona parte di quel credito si è consumata nella ritrovata credibilità internazionale dell’Italia, che è un merito indiscutibile della persona, oltre che del ruolo e dei rapporti ricoperti e coltivati precedentemente in Europa, mentre il resto è andato in fumo con una discesa (o salita, fate voi) in campo sponsorizzata da due degli elementi più conservatori e meno riformisti di sempre della politica italiana: Fini e Casini. Il primo ancora alla ricerca del suo posto nel mondo, il secondo dedito da almeno sei anni alla tessitura del grande centro, convinto di aver finalmente trovato il cavallo e lo sponsor giusti per varare la nave: Monti e Montezemolo. Sarebbe questa la novità delle prossime elezioni, la società civile che si presta alla politica per il cambiamento, e che per tale nobile scopo è pronta ad allearsi con tutti, come il buon Casini insegna da tempo. Proprio Monti, infatti, che da settimane addossa ora al Pd, ora al Pdl, la responsabilità degli scarsi risultati del suo governo, riferendosi una volta alla mancata volontà della sinistra di portare la riforma del lavoro fino in fondo, un’altra alla paternità della destra dell’odiosa Imu e del cretinissimo redditometro, evitando tuttavia di spiegare perché ci siamo sciroppati un anno di governo tecnico se le decisioni da prendere le aveva già prese il governo precedente, e se il blocco politico e sindacale meno incline alle riforme si è ugualmente imposto, è ora disponibile ad allearsi tanto con il Pd (senza Vendola) quanto con il Pdl (senza Berlusconi). Per fare cosa, poi, una volta arrivati a Palazzo Chigi? Mistero della fede. I contenuti, infatti sono i grandi assenti di tutta la campagna elettorale. Certo, si parla di tasse ed economia, le note più dolenti in questo momento in Italia, ma tutto finisce in vaghe promesse e accuse reciproche. Perché nessuno dei tre leader delle maggiori formazioni politiche è credibile. Non Berlusconi, al quale è lecito chiedere perché dovrebbe realizzare con un nuovo esecutivo quello che non ha fatto nelle precedenti esperienze governative; non Monti, che, nonostante un Parlamento sotto lo scacco dell’emergenza, e un governo esonerato dal giudizio elettorale, ha scelto la strada a tempo determinato dell’impoverimento per il risanamento, ed ora non si capisce perché, con una eventuale maggioranza certamente meno ampia della precedente, dovrebbe prediligere politiche nettamente diverse. Ma anche Bersani è poco credibile. Dopo aver combattuto contro l’unica ventata di riformismo e rinnovamento che si fosse vista in Italia da anni, Matteo Renzi, aver riaffermato il primato della nomenklatura e della tradizione di partito assicurando ai peggiori nemici del sindaco di Firenze l’ennesimo seggio in Parlamento, ed aver scelto l’alleanza alla sinistra del Pd, non si vede proprio in che modo il leader dei democratici potrebbe tenere insieme, in un eventuale governo, le istanze di Sel e della Cgil con la promessa coerenza all’azione del governo Monti e ai vincoli europei. Per non parlare naturalmente di tutto il resto. Quel resto fatto di politica estera, sicurezza, giustizia, società civile, Unione Europea, visione di sé e del proprio ruolo nel mondo. Tutte bazzecole scientemente escluse dal dibattito di una campagna elettorale da paura.

martedì 22 gennaio 2013

L'Europa, questa sconosciuta

Sono trascorsi ventitré anni dalla caduta del Muro di Berlino. Era il 9 novembre 1989, io avevo quindici anni e tante cose su quella storia, sul comunismo e sulla seconda guerra mondiale ancora non le sapevo, ma le sensazioni, la gioia, la bellezza di quel giorno le ricordo benissimo. Un’epoca si chiudeva per sempre e tutto sembrava possibile. L’Occidente, i suoi valori, il suo modello filosofico, giuridico e comportamentale aveva vinto e si sarebbe diffuso senza incontrare ulteriori ostacoli. Avevamo vissuto per decenni sapendo quale fosse il bene e il male, chi fossero gli amici e i nemici, ciò in cui credevamo e ciò che dovevamo combattere. Avevamo delle certezze, delle convinzioni radicate, una certa consapevolezza di noi stessi, ed era paradossalmente tutto più semplice. Era bello sapere da che parte stare potendola anche criticare e contestare; era bella L’Europa che si poteva solo immaginare, era bello avere un sogno da realizzare.
Ora tutto questo è finito. Gli ultimi venti anni di storia mondiale si sono portati via molto più dell’ottimismo - forse superficiale - di chi ha creduto che bastasse sconfiggere il comunismo sovietico per spianare la strada alle conquiste economiche e sociali dell’Occidente. Ora sappiamo che il mercato, da solo, non produce automaticamente democrazia, progresso, diritti, ed abbiamo anzi dovuto imparare che ci si può trasformare in una superpotenza economica quanto politicamente e socialmente arcaica grazie al capitalismo di stato ed ai suoi schiavi. Ora sappiamo che la finanza può benissimo non essere un portato del libero mercato, una proiezione dell’economia reale, ma un mondo astratto con una vita propria e proprie esclusive regole, in grado tuttavia di determinare la bancarotta di interi paesi. Ora sappiamo che una moneta comune non fa di un gruppo di paesi una unione politica di stati, e sappiamo anche che i comunisti erano i migliori nemici che potessimo avere, i più razionali e ragionevoli, gente che governava col terrore ma non avrebbe mai fatto del terrorismo un’arma di distruzione di massa. Ma soprattutto, ora sappiamo che a fare la differenza non è mai l’entità della forza della minaccia che incombe su di noi, quanto la nostra intrinseca debolezza, la manifesta incapacità politica e culturale in cui da tempo è piombato il Vecchio Continente. Perché? Perché non abbiamo saputo portare a compimento un progetto che è stato pensato quando davvero sembrava impossibile, quando le macerie della seconda guerra mondiale fumavano ancora? Quanto corrisponde l’Europa ideata dagli uomini che a pochi anni dalla fine del conflitto hanno saputo stringersi la mano e lasciarsi alle spalle l’odio, il rancore, la vendetta, il dolore - come i giovani italiani, francesi, inglesi e tedeschi che invece di spararsi addosso si ritrovarono insieme a sognare negli ostelli e per le strade delle capitali europee – a quella in cui viviamo oggi?
Troppo poco. Perché quegli uomini e quei giovani volevano molto più di un mercato unico e di una moneta comune. Volevano un insieme di principi e valori universali da rappresentare, diffondere e difendere, e volevano un obiettivo comune, una unione di stati che guardasse nella stessa direzione e costituisse un esempio di civiltà e progresso. Loro appartenevano a quella generazione di statisti che pensavano ed agivano a lungo termine, non solo in prospettiva delle rielezione. E forse il problema è solo questo. Gli uomini. I leader europei che si sono susseguiti alla guida dei propri stati e delle istituzioni dell’Unione da almeno due decenni a questa parte. Se fossero stati all’altezza a quest’ora i cittadini europei avrebbero una Costituzione, un Parlamento democraticamente eletto - e non una Commissione – a fondamento del processo legislativo e decisionale, una Banca centrale legittimata a difendere gli stati membri dagli attacchi della speculazione finanziaria, una politica estera comune e molto altro. 
Invece si ritrovano senza una Carta fondante, ancora praticamente all’oscuro dei meccanismi decisionali delle istituzioni europee, reciprocamente sospettosi sulle responsabilità di determinati stati membri riguardo la crisi e la speculazione finanziaria, impotenti di fronte alla manifesta incapacità dei propri leader di trovare una strada comune per fronteggiare qualsiasi emergenza, da quella economica a quelle internazionali, inesorabilmente divisi dalla rapidità e irrazionalità del processo integrativo con i paesi che fino a vent’anni fa facevano parte del blocco sovietico, e sostanzialmente sfiduciati riguardo il futuro e le prospettive dell’Unione. Bel risultato. Alla cui responsabilità nessuno può sottrarsi. Non la Germania e la Francia, che non hanno voluto rinunciare a primeggiare, economicamente e politicamente, al contempo però disinteressandosi, ad esempio, delle conseguenze inevitabili dell’ingresso indiscriminato di paesi economicamente e socialmente arretrati, salvo poi imporre, oggi che quelle conseguenze si sono materializzate, la loro personale visione di exit strategy. Non certo l’Italia, che ha smaniato per entrare nell’euro tra i primi quando verosimilmente non vi erano ancora le condizioni necessarie per farlo, e non si è preoccupata di attuare le riforme coerenti ai patti e agli accordi firmati in Europa, quelle mancate riforme che oggi avrebbero protetto il nostro debito dalla speculazione e dal disonore. Non certo la Grecia, la Spagna e tutti quei paesi che hanno guardato all’Europa non come un progetto comune alla cui realizzazione contribuire dinamicamente, ma come una manna dal cielo su cui scaricare sprechi e inefficienze interne. 
Nessuno è innocente. E se oggi piangiamo e soffriamo la crisi come non accadeva dalla seconda guerra mondiale, è perché non abbiamo costruito un senso comune dell’essere europeo; perché non condividiamo davvero gli stessi valori, la stessa idea di democrazia, di economia, di progresso, di ruolo nel mondo. Ecco perché non abbiamo una Costituzione e nessuno solleva un problema a riguardo. Perché c’è ancora un lunghissimo lavoro propedeutico per arrivarci, solo che il tempo è tiranno e di grandi uomini in grado di capire, incarnare e animare un nuovo spirito europeo, purtroppo non se ne vedono.