Le
primarie del Pd sono state una sorta di paradigma dell’Italia. Dalla querelle
sulle regole della campagna elettorale dei candidati alle polemiche sulle modalità
di voto del secondo turno, c’è mancato poco che al posto dei garanti dovesse
intervenire la magistratura, come sempre più spesso accade in un paese in cui
la politica non rispecchia affatto il carattere nazionale italiano, ma è piuttosto
l’origine e la ragione della diffusione della furbizia e dell’anarchia dentro e
fuori il mondo politico ed istituzionale. Eppure, per i tre mesi che sono
durate, hanno fatto bene a tutti. Alla politica in generale, che nel suo
dibattito aveva ripreso un certo tono; agli italiani, a quelli che si sono
entusiasmati e hanno partecipato, come quelli che hanno seguito tutto dalla
poltrona di casa con un interesse vivo che non provavano da tempo; e alla
sinistra, naturalmente, che – forse per la prima volta – invece di rincorrere
gli eventi ha cavalcato l’onda e si gode il risultato. Ci sono momenti topici
nella storia di un paese in cui i nodi vengono irrimediabilmente al pettine, e,
nel quadro generale attuale dell’Italia, che vede materializzarsi
all’improvviso tutti gli errori commessi negli ultimi quarant’anni e ne sta
pagando il salatissimo prezzo, il significato delle primarie è stato quello di
mettere il paese davanti allo specchio e fare una scelta determinante su ciò
che vuole essere in futuro. La cosa peggiore che potrebbe succedere, ora, è che
tutto questo finisca nel dimenticatoio. Un timore non proprio campato in aria a
giudicare dai discorsi sentiti in questa settimana, che somigliano molto più a
quelli della solita vecchia campagna elettorale, piuttosto che alle idee e alle
prospettive per il futuro lanciate in questi tre mesi, e di Matteo Renzi,
improvvisamente, già non si parla quasi più. Non stupisce certo che i vincitori
si affrettino a spazzare via i residui del riformismo spinto renziano, tutti
concentrati come sono a mettere in piedi la solita armata Brancaleone per
vincere le elezioni senza poi poter governare (con la piccola differenza che
questa volta non ci sono margini per scherzare), ma il punto è che nella guerra
tra Renzi e il “vecchio” Pd (o il Pd già vecchio) c’era molto più della
cosiddetta questione generazionale, molto più della sfida all’apparato
tradizionalmente gerarchico e gerontocratico della sinistra comunista e
post-comunista. In gioco c’era anche il destino di un germe che ha permeato di
sé ogni settore della vita pubblica italiana, per regioni storiche determinate,
che trascende completamente la sfida sulla fisionomia del Pd. Si tratta della
cultura della spocchia.
La
cultura della spocchia è quella regola non scritta, ma rigidamente osservata,
per cui i giovani italiani, nella stragrande maggioranza, non possono emergere
o raggiungere posti chiave del sistema in modo autonomo, contando
esclusivamente sui propri sforzi, la propria competenza e i propri meriti. La
politica italiana non ne è, evidentemente, solo la manifestazione più plastica,
ma anche e soprattutto la progenitrice che questa cultura l’ha irradiata e
lasciata proliferare in tutti i settori e gli ambienti professionali e
culturali. Cosa, infatti, di Renzi ha infastidito così profondamente la
nomenklatura di partito? Le sue idee? Non proprio rivoluzionarie, possono scandalizzare
giusto la Cgil e qualche altra cariatide d’apparato, visto che in quasi tutte
le socialdemocrazie europee sono considerate banalità già da anni, se non
decenni. E allora cosa? Cosa ha portato sull’orlo di una crisi di nervi gente
come Massimo D’Alema o Rosy Bindi? La spocchia, appunto. L’idea, intollerabile,
che un giovane sindaco potesse scalare tutti i gradini del partito e bruciare
tutte le tappe del successo solo grazie a un meccanismo così maledettamente
democratico come le primarie, lo stesso che lo ha portato a governare la città
di Firenze, di nuovo, contro il parere della dirigenza. E da quando, in Italia,
Vox populi, vox Dei? Quella che Renzi chiama la generazione che ha fallito, e
che oggi detiene il potere in Italia, non solo politico, è costituita per lo
più da ex sessantottini, quelli del sei politico e della militanza a oltranza;
quelli per cui anche andare in bagno era un gesto politico e hanno ottenuto la
politicizzazione della scuola, dell’università, della sanità, dell’intellettualità
e di tutto il sistema pubblico, con non poche infiltrazioni in quello privato;
quelli che oltre alla politica non si sa bene che cosa abbiano fatto; quelli
che urlavano slogan di libertà e uguaglianza e hanno creato il sistema dei
diritti senza doveri; quelli che si sono mangiati il futuro dei giovani vivendo
nettamente al di sopra delle possibilità del paese e che sono diventati
qualcuno sapendo aspettare il proprio turno. Questa è la classe dirigente che
reagisce con una spocchia assoluta ai tentativi di chicchessia di scalfire tale
sistema e tale cultura. In politica come nel mondo accademico e culturale, dove
la protervia di tanti professori che hanno combattuto contro i cosiddetti
baroni crea una distanza con i giovani studenti spesso incolmabile, e dove la
difficoltà di farsi valere spinge tante menti brillanti lontano. Lontano dalla
cultura della spocchia e dal suo sistema. Si potrebbero fare esempi in ogni
settore, istituzionale, pubblico ed anche privato. Perché la cultura della
spocchia è stata interiorizzata a livello nazionale e il risultato è che si è
spenta qualsiasi forma di curiosità o interesse per le idee e le potenzialità
dei giovani, sulla cui formazione infatti non si investe e non si crede. Fino a
quando gli strumenti per farsi una posizione risiederanno nel saper diligentemente
attendere il proprio turno, dopo aver coltivato gli ambienti giusti ed essersi
messi dietro la persona giusta, l’Italia continuerà ad invecchiare senza
crescere ed innovare. Inutile poi lamentarsi.
Certo,
mi si potrebbe obiettare che i giovani italiani sono dei bamboccioni. In parte
magari è vero, ma è vero soprattutto perché in questi decenni quella stessa
classe dirigente ha imposto la cultura dell’abbattimento dell’autorità, in
qualsiasi cosa essa si incarnasse, genitorialità compresa. Si è preferito
essere fratelli o amici dei propri figli, viziarli, perdonarli sempre, coprirli
addirittura. Una strada decisamente più semplice che educare con amore ma con
autorevolezza, insegnando la fatica dei valori, dei principi a cui rimanere
fedeli anche quando è dura, dei sacrifici che bisogna saper fare per
raggiungere i propri obiettivi. Ora però a pagare il prezzo di tutti questi
errori ci sono i tanti giovani in gamba di questo paese, molti dei quali ancora
alla ricerca del proprio posto all’interno della chiusissima società italiana.
Ma chissà che l’antidoto al germe della cultura della spocchia non sia stato
seminato.