lunedì 4 giugno 2012

Sette giorni in Israele


Chiunque può visitare Israele. Cercare di conoscerlo e capirlo, invece, è tutto un altro paio di maniche. Per farlo bisogna cominciare da Yad Vashem, il museo-monumento in ricordo delle vittime della Shoah, e fare un percorso non dissimile da quello intrapreso dai milioni di ebrei che furono portati nei campi di concentramento senza sapere quale sarebbe stato il loro destino. Bisogna entrare e denudarsi completamente. Dei pregiudizi, soprattutto. Di tutto quello che su Israele si crede di sapere e non si immagina neppure. Dei luoghi comuni, della stampa, degli intellettuali. Bisogna camminare lungo una specie di ponte sospeso le cui pareti convergono l’una verso l’altra senza incontrarsi mai, lasciando un lunga fessura orizzontale dalla quale proviene la luce che illumina tutto il percorso, e seguire la strada. In discesa, all’inizio. Bisogna entrare in ogni singolo padiglione costretti dalle barriere che si incontrano ogni pochi metri, ed incontrare la storia, le fotografie, i documenti, i filmati, le pietre provenienti dai tanti ghetti europei; bisogna sentirlo il peso della facilità con cui tutto questo è cominciato, il macigno di quel poco che è bastato ad Hitler per superare la prova della visita della Croce Rossa nel ghetto di Terezìn; bisogna lasciarsi colpire dalla facilità del male, piegarsi di fronte alla realtà del tanto che si poteva fare e del poco che, personalmente e meritevolmente, si è fatto; bisogna sentirsi cadere davanti alle lettere, agli oggetti e alle fotografie di milioni di storie, e dietro ogni storia una famiglia, e dietro ogni famiglia una comunità di chi credeva di essere semplicemente un ebreo tedesco, polacco, romeno, francese, belga, olandese, italiano, russo. Bisogna sentirlo il dolore alle gambe mentre improvvisamente il percorso comincia a salire, e l’uscita si avvicina fino a diventare una terrazza piena di luce di fronte alla quale una spettacolare vista di Israele si apre agli occhi. Solo allora tutto diventa più chiaro. Solo allora si materializza la consapevolezza che senza Israele il mondo dimenticherebbe in fretta. Se poi si ha ancora la forza di visitare la tenda del ricordo, e - soprattutto - un breve corridoio, completamente buio, illuminato solo da milioni di lucine prodotte da poche candele inserite in un gioco di prisma e specchi invisibili, avvolto da voci calme e ininterrotte che ripetono il nome, l’età e la provenienza del milione e mezzo di bambini vittime dell’Olocausto, allora si può apprezzare fino in fondo l’intensità, la delicatezza e la suggestione di un luogo che è anche un immenso archivio storico e un centro studi per un popolo che, lungi dal piangersi addosso, è costantemente rivolto al futuro. E il futuro è conoscenza, cultura, speranza, sacrificio.
Lo sa bene chi ha sconfitto l’analfabetismo grazie al precetto secondo cui è dovere dei padri insegnare ai figli a leggere e scrivere; lo sa un Paese la cui eccellenza di università e centri di ricerca sembra quasi stare lì a dimostrare l’utilità, la legittimità della propria esistenza. Ma non è a questo che si pensa visitando i musei, gli edifici e le università di Tel Aviv e Gerusalemme. E’ la normalità quella che salta agli occhi. E’ ciò che non ti aspetti di vedere: giovani arabi ed ebrei che passeggiano, studiano, pranzano, bevono un caffè, chiacchierano, ridono. Tante famiglie, tantissimi bambini, parchi, scolaresche che sciamano per i musei, macchine israeliane e palestinesi (si distinguono per il colore della targa) che circolano. Persino i soldati che si incontrano per strada, ragazzi e ragazze che a diciotto anni dedicano rispettivamente tre e due anni della loro vita al servizio militare, hanno un’aria tranquilla e sorridente. Eppure è difficile credere che lo siano veramente. Crescere in Israele significa correre seriamente il rischio di dover svolgere azioni militari, di perdere la vita o di toglierla a qualcun altro. Lo sanno loro e lo sapevano soprattutto i loro genitori quando hanno deciso di crescerli lì. Forse è questa una delle cose che colpisce di più. Nonostante gli oggettivi pericoli che l’essere israeliano comporti, nonostante la reale minaccia del nucleare iraniano sulla testa, la sensazione che si riceve, l’aria che si respira, non è affatto di cupezza o preoccupazione, ma di ottimismo e fattività. E’ come se la gente, avendo pensieri molto gravosi per la testa, non se lo concedesse il lusso di un sottile malessere collettivo, di quella infelicità che è perdita di senso, solitudine, frustrazione. E’ il livello altissimo di gradimento dei cittadini israeliani rispetto al proprio Paese a dimostrarlo; è l’essere disposti a sacrificare se stessi per qualcosa in cui si crede e dal quale ci si sente rappresentati e protetti; sono i giovani che sviluppano presto senso della comunità e spirito di sacrificio. Non solo per motivi religiosi (quando sono osservanti, perché gli ebrei atei in Israele non mancano), ma per il tipo di educazione alla solidarietà che viene loro impartita nelle scuole. Verso i tredici anni, infatti, sono obbligati a prestare servizio civile, a loro scelta, in una delle tante realtà sociali israeliane, dagli ospizi agli ospedali all’esercito. E questo è certamente uno degli elementi che contribuisce a formare l’identità ebraica, che precede e prescinde quella religiosa, anche se i due fattori, per molti aspetti, si fondono e si confondono. Non si spiegherebbe altrimenti come mai un Paese in cui non esiste il matrimonio civile non sia affatto teocratico, ed anzi estremamente avanzato sotto il profilo dei diritti civili. Per gli ebrei la convivenza è matrimonio, quindi sì alle unioni omosessuali, alle adozioni di gay e single, alla fecondazione assistita. E sì al divorzio già da circa un migliaio di anni.
E’ dunque il senso di appartenenza a un’identità fatta di storia, riti, tradizioni, credo e cultura, a consentire a due ebrei di opinioni diametralmente opposte di condividere lo stesso metro quadro di terra; è l’essere ebreo come fatto identitario, non religioso, a mantenere integro un filo che tiene uniti gli ebrei della Diaspora per secoli; è la “semplice” idea di Theodor Herzl, il padre del sionismo, insieme ai pogrom che si sono consumati soprattutto in Europa orientale negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, a convincere centinaia e migliaia di ebrei di tutte le nazionalità a comprare dall’impero ottomano un pezzo di terra fatto di deserto, sabbia e pietre. Così è nata Tel Aviv, nel 1909. Da sessantasei famiglie che in Europa facevano i medici e gli avvocati e si sono messe a dissodare e coltivare la sabbia. Con risultati che hanno portato Israele, oggi, ad un indiscusso primato in fatto di tecnologia agricola. Lo si capisce ad occhio nudo percorrendo il paese da Tel Aviv verso la bassa Galilea, il basso Golan e il lago di Tiberiade, e costeggiando la valle del Giordano in direzione di Gerusalemme; ma è evidente anche lungo il mar Morto, verso l’antica fortezza di Masada. Distese desertiche ovunque, e ovunque coltivazioni verdeggianti e alberi trapiantati, i cosiddetti rimboschimenti. E’ così che la Galilea sembra macchia mediterranea, nel Golan si produce dell’ottimo vino e sul mar Morto fioriscono i melograni. Con dei tubicini di diverso colore, a seconda che l’acqua sia riciclata (lo è circa l’80% di quella che si consuma) oppure no, che nutrono ogni singola pianta. Ma da dove arriva tutta quest’acqua? Quando ci si trova di fronte i monti siriani e giordani, così spogli e brulli rispetto a quelli israeliani, è impossibile non chiederselo. Tralasciando naturalmente le oasi naturali e la dissalazione del Mar Morto, la questione dell’approvvigionamento idrico è materia di conflitto israelo-palestinese ed è dunque un argomento molto delicato. Ci sono tuttavia dei fatti e dei dati che possono essere rapidamente riassunti: quando Israele ha preso il controllo della Cisgiordania, dopo la guerra dei Sei giorni nel 1967, la rete idrica era praticamente inesistente; solo quattro delle circa 700 comunità municipali palestinesi disponevano di acqua corrente. Tra il 1967 e il 1995 questa cifra è passata a 309 grazie alla costruzione di pozzi ad alto rendimento e di una rete di canalizzazione, e con gli accordi di Oslo del 1993 è stata istituita una Commissione congiunta israelo-palestinese per la gestione delle acque (la JWC, Joint Water Committee). Dopo l’accordo del 28 settembre 1995, Israele ha ceduto all’Autorità Palestinese (AP) la sovranità sulla gestione della rete idrica dei Territori, senza tuttavia interrompere la collaborazione della JWC, che prevedeva comunque lavori di potenziamento da parte israeliana. Secondo fonti ufficiali israeliane tutto questo ha portato, oggi, il 96% dei palestinesi ad avere l’acqua corrente in casa, e la disponibilità pro capite è di circa 140 m3 contro i 150 per ogni cittadino israeliano. Queste cifre, però, sono spesso oggetto di contestazione da parte palestinese, perché c’è una significativa disputa sul numero reale degli abitanti dei Territori. Va detto, tuttavia, che non esiste un censimento ufficiale da parte dell’Autorità Palestinese, al punto che enti dello stesso governo riportano cifre che variano anche del 40%, e questo, secondo studi israeliani, perché i palestinesi tenderebbero a gonfiare il dato fino a un terzo in più per ottenere maggiori sussidi dalle Nazioni Unite, stabiliti in una determinata cifra per ogni nato.
Ciò che resta, comunque, è il dato di fatto di una realtà palestinese difficile da decifrare, ma apparentemente diversa da come viene solitamente presentata. Spostarsi da Tel Aviv a Gerusalemme, risalendo verso Nord e ridiscendendo lungo la valle del Giordano, significa percorrere circa metà dell’intero territorio israeliano, e aver modo di incontrare diverse località, paesaggi, villaggi, insediamenti. E le sorprese non mancano. E’ incredibilmente facile, ad esempio, girare per le strade e ritrovarsi in un villaggio palestinese senza accorgersene, essendo partiti con l’idea che fossero contraddistinti da baracche fatiscenti (le uniche che ho visto appartenevano a insediamenti beduini, gente abbastanza impermeabile ai richiami della modernità e della secolarizzazione); imbattersi in un check-point (ce ne sono svariati) che somiglia più ad un posto di blocco qualsiasi che al girone dantesco di anime in fila che ci si immagina; notare che quelli che vivono in una sorta di prigione sono gli abitanti dei cosiddetti insediamenti israeliani (alcuni davvero minuscoli), protetti e sorvegliati dai soldati; rendersi conto che la famosa barriera difensiva non è affatto un muro insormontabile lungo centinaia di km, ma una doppia recinzione, dotata di sensori, intervallata da parti in cemento armato per una lunghezza complessiva di 7 km in corrispondenza delle zone dalle quali, negli anni caldi della seconda Intifada, i cecchini sparavano sulle auto e sui passanti israeliani. E’ chiaro che, muro o recinzione che sia, è il segno della divisione e delle ostilità che permangono, e non c’è dubbio che queste misure difensive abbiano aggravato notevolmente le condizioni di vita dei palestinesi, per i quali spostarsi verso le città israeliane per lavorare e tornare poi a casa la sera è diventato estremamente complicato. Con conseguenze facili da immaginare: disoccupazione, scarsa mobilità, riduzione del tenore di vita. D’altro canto, però, oggi è di nuovo possibile entrare in un caffè o in un ristorante di Tel Aviv con la ragionevole certezza di non saltare in aria. E non è poco. Le misure adottate funzionano e il terrorismo suicida, per quante vittime abbia provocato, alla lunga ha danneggiato solo i palestinesi, e questa è una realtà su cui occorrerebbe riflettere quando si pretende di scaricare esclusivamente sugli israeliani la responsabilità della vita e delle condizioni economiche e sociali dei palestinesi. Che sono rappresentati dall’AP, la quale, in loro nome, riceve e gestisce fiumi di denaro. Come, e con quali risultati, è costantemente oggetto di discussione, ma è stato estremamente interessante, in tal senso, incontrare lo sceicco di Hebron ed essere suoi ospiti sotto una grande tenda beduina. Perché non ci si aspetta di sentire che non si può pretendere il ritorno di nove milioni di profughi palestinesi (gli israeliani sono circa otto milioni e i palestinesi che fuggirono dopo la fondazione dello Stato di Israele furono 600mila), e che gli accordi di Oslo sono considerati una disgrazia dal popolo palestinese in quanto questo non sarebbe affatto interessato alla formula dei due Stati; sorprende sentire che l’Autorità Palestinese non rappresenti veramente le idee e le istanze del popolo, intuire che questo sia più legato ad una concezione tribale della società, e che sarebbe più facile per uno sceicco che goda dell’effettivo consenso di una determinata comunità trattare direttamente con lo Stato israeliano. Ma è davvero così? Esiste un orientamento maggioritario tra i palestinesi, e se sì, chi lo rappresenta? Come la mettiamo col dato di fatto che le scuole, i libri, la televisione e persino i giocattoli palestinesi insegnino fin dalla più tenera età ai propri figli l’odio assoluto e incondizionato verso gli ebrei? Come si conciliano le “aperture” dello sceicco di Hebron con altre sue affermazioni secondo cui l’Islam non ammette che un musulmano ceda neanche un centimetro di terra? O con la mancata presa di distanza dalla strategia terroristica di Hamas?
Sono tante le certezze che si perdono lungo un viaggio di soli sette giorni. Che si trasformano in veri e propri dubbi non appena si arriva a Gerusalemme. Bella, intensa, avvolgente, imperscrutabile, caratterizzata da una storia millenaria impossibile da memorizzare, è una capitale ma al tempo stesso la città più povera di Israele. Eppure non si direbbe affatto ammirando gli edifici debitamente ricoperti dalla caratteristica pietra bianca locale, o passeggiando lungo le strade ricche di bei negozi e locali alla moda di Mamilla, e neppure percorrendo le viuzze della città vecchia. Silenziosissime quelle del quartiere armeno, con le sue caratteristiche botteghe d’artigianato; colorati e chiassosi quello arabo, percorso dal Suk che si snoda lungo ogni singola via, e cristiano; di una tranquillità quasi surreale quello ebraico, il più nuovo perché interamente ricostruito dopo essere stato raso al suolo dai giordani nella guerra del 1948-49. E’ strana l’aria che si respira in questa città, dove ci si sposta da un quartiere all’altro senza soluzione di continuità e sembra che tutto possa convivere senza difficoltà, mentre la realtà è che ogni singolo gesto o parola possono avere conseguenze pesanti. E’ una città che cambia e cresce, ma per spostare una pietra ci vogliono trattative estenuanti e il governo si muove con estrema cautela. Non le si adatta l’etichetta di città santa, ma è la città dei luoghi santi e la fila al metal detector è lì a ricordarti la storia millenaria, i conflitti, le costruzioni, le distruzioni e i diversi domini vissuti da Gerusalemme. Tutto dentro le mura cinquecentesche di Solimano il Magnifico, le più recenti tra le meraviglie architettoniche della città, molte delle quali sono attualmente oggetto di scavi e ricerche lungo la galleria che è la prosecuzione sotterranea del Muro Occidentale (o più semplicemente Kotel, muro, luogo santo per gli ebrei in quanto rimanenza del muro di cinta del Secondo Tempio, distrutto da Tito nel 70 d.c. ), e risalgono in maggior parte al tempo di Erode (I secolo a.c.). Al di fuori di tutto questo, però, c’è una città che vive e lavora, ci sono i palazzi delle istituzioni e del potere politico, dell’economia e della cultura. C’è il Museo di Israele, splendido esempio di struttura in cui il percorso conoscitivo si snoda all’interno e all’esterno tra sculture, giardini e padiglioni, alcuni dei quali, come quello che contiene i Rotoli del Mar Morto, di alto valore simbolico e di forte impatto visivo.
Tutto questo è Israele. Uno sputo di terra di otto milioni di abitanti in mezzo a ventidue paesi arabi e trecento milioni di persone ostili, uno dei paesi più odiati al mondo. Perché? Secondo Manfred Gerstenfeld, scrittore e attivista di origini austriache, perché l’antisemitismo è parte integrante della cultura europea, anche se questo non significa che la maggior parte degli europei sia antisemita. Stabilito che “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può manifestarsi come odio, anche nei confronti di Israele”, Gerstenfeld ritiene vi siano tre tipi di antisemitismo: quello religioso, che accusa gli ebrei dell’uccisione del figlio di Dio; quello nazionale/etico, che li accusa di difetti di nascita, e quello antiisraeliano, che li accusa di nazismo. A questi si può aggiungere poi il razzismo umano, secondo il quale solo l’uomo bianco (inteso come occidentale) è responsabile delle proprie azioni, non le categorie deboli, come, ad esempio, i palestinesi. Ma questo non basta a spiegare tanto odio e tanti pregiudizi. Il problema è prendere in considerazione l’ipotesi che le cose potrebbero essere diverse dall’idea che abbiamo voluto a tutti i costi sposare, quella che ci piace di più, che si addice di più a ciò che siamo, o semplicemente quella che ci fa sentire a posto con la coscienza. Si sta dalla parte dei più deboli, senza farsi tante domande e cercare altre risposte. Ma in Israele non è così semplice. Un viaggio non basta a capire la complessità e la delicatezza della situazione, ma è sufficiente per tornare a casa con la voglia di capire di più, di approfondire. La storia insegna quante tragedie avrebbero potuto essere evitate dal viaggio del dubbio. E allora fatelo, questo viaggio. Andate a vedere Israele con i vostri occhi.