Chiunque
può visitare Israele. Cercare di conoscerlo e capirlo, invece, è tutto un altro
paio di maniche. Per farlo bisogna cominciare da Yad Vashem, il museo-monumento
in ricordo delle vittime della Shoah, e fare un percorso non dissimile da
quello intrapreso dai milioni di ebrei che furono portati nei campi di
concentramento senza sapere quale sarebbe stato il loro destino. Bisogna
entrare e denudarsi completamente. Dei pregiudizi, soprattutto. Di tutto quello
che su Israele si crede di sapere e non si immagina neppure. Dei luoghi comuni,
della stampa, degli intellettuali. Bisogna camminare lungo una specie di ponte
sospeso le cui pareti convergono l’una verso l’altra senza incontrarsi mai,
lasciando un lunga fessura orizzontale dalla quale proviene la luce che
illumina tutto il percorso, e seguire la strada. In discesa, all’inizio.
Bisogna entrare in ogni singolo padiglione costretti dalle barriere che si
incontrano ogni pochi metri, ed incontrare la storia, le fotografie, i
documenti, i filmati, le pietre provenienti dai tanti ghetti europei; bisogna
sentirlo il peso della facilità con cui tutto questo è cominciato, il macigno
di quel poco che è bastato ad Hitler per superare la prova della visita della
Croce Rossa nel ghetto di Terezìn; bisogna lasciarsi colpire dalla facilità del
male, piegarsi di fronte alla realtà del tanto che si poteva fare e del poco
che, personalmente e meritevolmente, si è fatto; bisogna sentirsi cadere
davanti alle lettere, agli oggetti e alle fotografie di milioni di storie, e
dietro ogni storia una famiglia, e dietro ogni famiglia una comunità di chi
credeva di essere semplicemente un ebreo tedesco, polacco, romeno, francese,
belga, olandese, italiano, russo. Bisogna sentirlo il dolore alle gambe mentre
improvvisamente il percorso comincia a salire, e l’uscita si avvicina fino a
diventare una terrazza piena di luce di fronte alla quale una spettacolare
vista di Israele si apre agli occhi. Solo allora tutto diventa più chiaro. Solo
allora si materializza la consapevolezza che senza Israele il mondo
dimenticherebbe in fretta. Se poi si ha ancora la forza di visitare la tenda
del ricordo, e - soprattutto - un breve corridoio, completamente buio,
illuminato solo da milioni di lucine prodotte da poche candele inserite in un
gioco di prisma e specchi invisibili, avvolto da voci calme e ininterrotte che
ripetono il nome, l’età e la provenienza del milione e mezzo di bambini vittime
dell’Olocausto, allora si può apprezzare fino in fondo l’intensità, la
delicatezza e la suggestione di un luogo che è anche un immenso archivio
storico e un centro studi per un popolo che, lungi dal piangersi addosso, è
costantemente rivolto al futuro. E il futuro è conoscenza, cultura, speranza,
sacrificio.
Lo
sa bene chi ha sconfitto l’analfabetismo grazie al precetto secondo cui è
dovere dei padri insegnare ai figli a leggere e scrivere; lo sa un Paese la cui
eccellenza di università e centri di ricerca sembra quasi stare lì a dimostrare
l’utilità, la legittimità della propria esistenza. Ma non è a questo che si
pensa visitando i musei, gli edifici e le università di Tel Aviv e Gerusalemme.
E’ la normalità quella che salta agli occhi. E’ ciò che non ti aspetti di
vedere: giovani arabi ed ebrei che passeggiano, studiano, pranzano, bevono un
caffè, chiacchierano, ridono. Tante famiglie, tantissimi bambini, parchi,
scolaresche che sciamano per i musei, macchine israeliane e palestinesi (si
distinguono per il colore della targa) che circolano. Persino i soldati che si
incontrano per strada, ragazzi e ragazze che a diciotto anni dedicano
rispettivamente tre e due anni della loro vita al servizio militare, hanno
un’aria tranquilla e sorridente. Eppure è difficile credere che lo siano
veramente. Crescere in Israele significa correre seriamente il rischio di dover
svolgere azioni militari, di perdere la vita o di toglierla a qualcun altro. Lo
sanno loro e lo sapevano soprattutto i loro genitori quando hanno deciso di
crescerli lì. Forse è questa una delle cose che colpisce di più. Nonostante gli
oggettivi pericoli che l’essere israeliano comporti, nonostante la reale
minaccia del nucleare iraniano sulla testa, la sensazione che si riceve, l’aria
che si respira, non è affatto di cupezza o preoccupazione, ma di ottimismo e
fattività. E’ come se la gente, avendo pensieri molto gravosi per la testa, non
se lo concedesse il lusso di un sottile malessere collettivo, di quella
infelicità che è perdita di senso, solitudine, frustrazione. E’ il livello altissimo
di gradimento dei cittadini israeliani rispetto al proprio Paese a dimostrarlo;
è l’essere disposti a sacrificare se stessi per qualcosa in cui si crede e dal
quale ci si sente rappresentati e protetti; sono i giovani che sviluppano
presto senso della comunità e spirito di sacrificio. Non solo per motivi
religiosi (quando sono osservanti, perché gli ebrei atei in Israele non
mancano), ma per il tipo di educazione alla solidarietà che viene loro
impartita nelle scuole. Verso i tredici anni, infatti, sono obbligati a
prestare servizio civile, a loro scelta, in una delle tante realtà sociali
israeliane, dagli ospizi agli ospedali all’esercito. E questo è certamente uno
degli elementi che contribuisce a formare l’identità ebraica, che precede e
prescinde quella religiosa, anche se i due fattori, per molti aspetti, si
fondono e si confondono. Non si spiegherebbe altrimenti come mai un Paese in
cui non esiste il matrimonio civile non sia affatto teocratico, ed anzi
estremamente avanzato sotto il profilo dei diritti civili. Per gli ebrei la
convivenza è matrimonio, quindi sì alle unioni omosessuali, alle adozioni di
gay e single, alla fecondazione assistita. E sì al divorzio già da circa un
migliaio di anni.
E’
dunque il senso di appartenenza a un’identità fatta di storia, riti,
tradizioni, credo e cultura, a consentire a due ebrei di opinioni diametralmente
opposte di condividere lo stesso metro quadro di terra; è l’essere ebreo come
fatto identitario, non religioso, a mantenere integro un filo che tiene uniti
gli ebrei della Diaspora per secoli; è la “semplice” idea di Theodor Herzl, il
padre del sionismo, insieme ai pogrom che si sono consumati soprattutto in
Europa orientale negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, a convincere
centinaia e migliaia di ebrei di tutte le nazionalità a comprare dall’impero
ottomano un pezzo di terra fatto di deserto, sabbia e pietre. Così è nata Tel
Aviv, nel 1909. Da sessantasei famiglie che in Europa facevano i medici e gli
avvocati e si sono messe a dissodare e coltivare la sabbia. Con risultati che
hanno portato Israele, oggi, ad un indiscusso primato in fatto di tecnologia
agricola. Lo si capisce ad occhio nudo percorrendo il paese da Tel Aviv verso
la bassa Galilea, il basso Golan e il lago di Tiberiade, e costeggiando la
valle del Giordano in direzione di Gerusalemme; ma è evidente anche lungo il
mar Morto, verso l’antica fortezza di Masada. Distese desertiche ovunque, e
ovunque coltivazioni verdeggianti e alberi trapiantati, i cosiddetti
rimboschimenti. E’ così che la Galilea sembra macchia mediterranea, nel Golan
si produce dell’ottimo vino e sul mar Morto fioriscono i melograni. Con dei
tubicini di diverso colore, a seconda che l’acqua sia riciclata (lo è circa
l’80% di quella che si consuma) oppure no, che nutrono ogni singola pianta. Ma
da dove arriva tutta quest’acqua? Quando ci si trova di fronte i monti siriani
e giordani, così spogli e brulli rispetto a quelli israeliani, è impossibile
non chiederselo. Tralasciando naturalmente le oasi naturali e la dissalazione del
Mar Morto, la questione dell’approvvigionamento idrico è materia di conflitto
israelo-palestinese ed è dunque un argomento molto delicato. Ci sono tuttavia
dei fatti e dei dati che possono essere rapidamente riassunti: quando Israele
ha preso il controllo della Cisgiordania, dopo la guerra dei Sei giorni nel
1967, la rete idrica era praticamente inesistente; solo quattro delle circa 700
comunità municipali palestinesi disponevano di acqua corrente. Tra il 1967 e il
1995 questa cifra è passata a 309 grazie alla costruzione di pozzi ad alto
rendimento e di una rete di canalizzazione, e con gli accordi di Oslo del 1993 è
stata istituita una Commissione congiunta israelo-palestinese per la gestione
delle acque (la JWC, Joint Water Committee). Dopo l’accordo del 28 settembre
1995, Israele ha ceduto all’Autorità Palestinese (AP) la sovranità sulla
gestione della rete idrica dei Territori, senza tuttavia interrompere la
collaborazione della JWC, che prevedeva comunque lavori di potenziamento da parte
israeliana. Secondo fonti ufficiali israeliane tutto questo ha portato, oggi,
il 96% dei palestinesi ad avere l’acqua corrente in casa, e la disponibilità
pro capite è di circa 140 m3 contro i 150 per ogni cittadino israeliano. Queste
cifre, però, sono spesso oggetto di contestazione da parte palestinese, perché
c’è una significativa disputa sul numero reale degli abitanti dei Territori. Va
detto, tuttavia, che non esiste un censimento ufficiale da parte dell’Autorità
Palestinese, al punto che enti dello stesso governo riportano cifre che variano
anche del 40%, e questo, secondo studi israeliani, perché i palestinesi tenderebbero
a gonfiare il dato fino a un terzo in più per ottenere maggiori sussidi dalle
Nazioni Unite, stabiliti in una determinata cifra per ogni nato.
Ciò
che resta, comunque, è il dato di fatto di una realtà palestinese difficile da
decifrare, ma apparentemente diversa da come viene solitamente presentata. Spostarsi
da Tel Aviv a Gerusalemme, risalendo verso Nord e ridiscendendo lungo la valle
del Giordano, significa percorrere circa metà dell’intero territorio
israeliano, e aver modo di incontrare diverse località, paesaggi, villaggi,
insediamenti. E le sorprese non mancano. E’ incredibilmente facile, ad esempio,
girare per le strade e ritrovarsi in un villaggio palestinese senza
accorgersene, essendo partiti con l’idea che fossero contraddistinti da
baracche fatiscenti (le uniche che ho visto appartenevano a insediamenti beduini,
gente abbastanza impermeabile ai richiami della modernità e della
secolarizzazione); imbattersi in un check-point (ce ne sono svariati) che
somiglia più ad un posto di blocco qualsiasi che al girone dantesco di anime in
fila che ci si immagina; notare che quelli che vivono in una sorta di prigione
sono gli abitanti dei cosiddetti insediamenti israeliani (alcuni davvero
minuscoli), protetti e sorvegliati dai soldati; rendersi conto che la famosa
barriera difensiva non è affatto un muro insormontabile lungo centinaia di km,
ma una doppia recinzione, dotata di sensori, intervallata da parti in cemento
armato per una lunghezza complessiva di 7 km in corrispondenza delle zone dalle
quali, negli anni caldi della seconda Intifada, i cecchini sparavano sulle auto
e sui passanti israeliani. E’ chiaro che, muro o recinzione che sia, è il segno
della divisione e delle ostilità che permangono, e non c’è dubbio che queste
misure difensive abbiano aggravato notevolmente le condizioni di vita dei
palestinesi, per i quali spostarsi verso le città israeliane per lavorare e
tornare poi a casa la sera è diventato estremamente complicato. Con conseguenze
facili da immaginare: disoccupazione, scarsa mobilità, riduzione del tenore di
vita. D’altro canto, però, oggi è di nuovo possibile entrare in un caffè o in
un ristorante di Tel Aviv con la ragionevole certezza di non saltare in aria. E
non è poco. Le misure adottate funzionano e il terrorismo suicida, per quante
vittime abbia provocato, alla lunga ha danneggiato solo i palestinesi, e questa
è una realtà su cui occorrerebbe riflettere quando si pretende di scaricare
esclusivamente sugli israeliani la responsabilità della vita e delle condizioni
economiche e sociali dei palestinesi. Che sono rappresentati dall’AP, la quale,
in loro nome, riceve e gestisce fiumi di denaro. Come, e con quali risultati, è
costantemente oggetto di discussione, ma è stato estremamente interessante, in
tal senso, incontrare lo sceicco di Hebron ed essere suoi ospiti sotto una
grande tenda beduina. Perché non ci si aspetta di sentire che non si può
pretendere il ritorno di nove milioni di profughi palestinesi (gli israeliani
sono circa otto milioni e i palestinesi che fuggirono dopo la fondazione dello
Stato di Israele furono 600mila), e che gli accordi di Oslo sono considerati
una disgrazia dal popolo palestinese in quanto questo non sarebbe affatto
interessato alla formula dei due Stati; sorprende sentire che l’Autorità
Palestinese non rappresenti veramente le idee e le istanze del popolo, intuire
che questo sia più legato ad una concezione tribale della società, e che
sarebbe più facile per uno sceicco che goda dell’effettivo consenso di una
determinata comunità trattare direttamente con lo Stato israeliano. Ma è
davvero così? Esiste un orientamento maggioritario tra i palestinesi, e se sì,
chi lo rappresenta? Come la mettiamo col dato di fatto che le scuole, i libri,
la televisione e persino i giocattoli palestinesi insegnino fin dalla più
tenera età ai propri figli l’odio assoluto e incondizionato verso gli ebrei? Come
si conciliano le “aperture” dello sceicco di Hebron con altre sue affermazioni
secondo cui l’Islam non ammette che un musulmano ceda neanche un centimetro di
terra? O con la mancata presa di distanza dalla strategia terroristica di Hamas?
Sono
tante le certezze che si perdono lungo un viaggio di soli sette giorni. Che si
trasformano in veri e propri dubbi non appena si arriva a Gerusalemme. Bella, intensa,
avvolgente, imperscrutabile, caratterizzata da una storia millenaria
impossibile da memorizzare, è una capitale ma al tempo stesso la città più
povera di Israele. Eppure non si direbbe affatto ammirando gli edifici
debitamente ricoperti dalla caratteristica pietra bianca locale, o passeggiando
lungo le strade ricche di bei negozi e locali alla moda di Mamilla, e neppure
percorrendo le viuzze della città vecchia. Silenziosissime quelle del quartiere
armeno, con le sue caratteristiche botteghe d’artigianato; colorati e chiassosi
quello arabo, percorso dal Suk che si snoda lungo ogni singola via, e cristiano;
di una tranquillità quasi surreale quello ebraico, il più nuovo perché
interamente ricostruito dopo essere stato raso al suolo dai giordani nella
guerra del 1948-49. E’ strana l’aria che si respira in questa città, dove ci si
sposta da un quartiere all’altro senza soluzione di continuità e sembra che
tutto possa convivere senza difficoltà, mentre la realtà è che ogni singolo
gesto o parola possono avere conseguenze pesanti. E’ una città che cambia e
cresce, ma per spostare una pietra ci vogliono trattative estenuanti e il
governo si muove con estrema cautela. Non le si adatta l’etichetta di città
santa, ma è la città dei luoghi santi e la fila al metal detector è lì a ricordarti
la storia millenaria, i conflitti, le costruzioni, le distruzioni e i diversi
domini vissuti da Gerusalemme. Tutto dentro le mura cinquecentesche di Solimano
il Magnifico, le più recenti tra le meraviglie architettoniche della città,
molte delle quali sono attualmente oggetto di scavi e ricerche lungo la
galleria che è la prosecuzione sotterranea del Muro Occidentale (o più semplicemente
Kotel, muro, luogo santo per gli ebrei in quanto rimanenza del muro di cinta
del Secondo Tempio, distrutto da Tito nel 70 d.c. ), e risalgono in maggior
parte al tempo di Erode (I secolo a.c.). Al di fuori di tutto questo, però, c’è
una città che vive e lavora, ci sono i palazzi delle istituzioni e del potere
politico, dell’economia e della cultura. C’è il Museo di Israele, splendido
esempio di struttura in cui il percorso conoscitivo si snoda all’interno e all’esterno
tra sculture, giardini e padiglioni, alcuni dei quali, come quello che contiene
i Rotoli del Mar Morto, di alto valore simbolico e di forte impatto visivo.
Tutto
questo è Israele. Uno sputo di terra di otto milioni di abitanti in mezzo a
ventidue paesi arabi e trecento milioni di persone ostili, uno dei paesi più
odiati al mondo. Perché? Secondo Manfred Gerstenfeld, scrittore e attivista di
origini austriache, perché l’antisemitismo è parte integrante della cultura
europea, anche se questo non significa che la maggior parte degli europei sia
antisemita. Stabilito che “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei,
che può manifestarsi come odio, anche nei confronti di Israele”, Gerstenfeld
ritiene vi siano tre tipi di antisemitismo: quello religioso, che accusa gli
ebrei dell’uccisione del figlio di Dio; quello nazionale/etico, che li accusa
di difetti di nascita, e quello antiisraeliano, che li accusa di nazismo. A
questi si può aggiungere poi il razzismo umano, secondo il quale solo l’uomo
bianco (inteso come occidentale) è responsabile delle proprie azioni, non le
categorie deboli, come, ad esempio, i palestinesi. Ma questo non basta a
spiegare tanto odio e tanti pregiudizi. Il problema è prendere in
considerazione l’ipotesi che le cose potrebbero essere diverse dall’idea che
abbiamo voluto a tutti i costi sposare, quella che ci piace di più, che si
addice di più a ciò che siamo, o semplicemente quella che ci fa sentire a posto
con la coscienza. Si sta dalla parte dei più deboli, senza farsi tante domande
e cercare altre risposte. Ma in Israele non è così semplice. Un viaggio non basta
a capire la complessità e la delicatezza della situazione, ma è sufficiente per
tornare a casa con la voglia di capire di più, di approfondire. La storia
insegna quante tragedie avrebbero potuto essere evitate dal viaggio del dubbio.
E allora fatelo, questo viaggio. Andate a vedere Israele con i vostri occhi.