mercoledì 25 luglio 2012

La resa dell'Occidente all'Islam


Quando l’Europa deciderà di aprire gli occhi, e di guardare ad Israele come ad un baluardo fondamentale dell’Occidente, presumibilmente sarà troppo tardi. Perché il problema non è tanto l’Iran o Hezbollah; è la mancata integrazione politica, il grigiore culturale, l’appiattimento ideologico, l’assenza di prospettive a lungo termine. Cose che minano, rischiando di distruggere definitivamente, le fragili fondamenta di un continente dalla storia plurimillenaria. La crisi economica sta dimostrando ogni giorno, e molto duramente, dove ci abbia portato una visione troppo superficiale e disinvolta dell’unificazione europea, che ha dato alla UE un cospicuo numero di membri, una grande estensione territoriale, milioni di abitanti e un immenso mercato interno, senza riuscire tuttavia ad esprimere un documento fondamentale di condivisione di valori e finalità, un Parlamento titolare di poteri decisionali, una politica estera comune, una concezione analoga della sicurezza territoriale, una strategia condivisa contro il terrorismo, la criminalità, l’immigrazione clandestina, la speculazione finanziaria. Nemmeno una banca che stampi moneta. E lo spread è come l’antisemitismo: interessato fino ad un certo punto a quello che fanno i singoli paesi, e sensibilissimo all’immagine che l’Europa è in grado di dare di sé in quanto insieme di paesi che condividono metodi e obiettivi. Economici, in un caso, politici e morali, nell’altro.
Si può ragionare a lungo sul fatto che i paesi europei geograficamente più vicini al Medioriente si prestino maggiormente come base logistica e operativa agli attentati terroristici, ma il punto non è questo. Burgas è un luogo facile e simbolico (in quanto località turistica) da colpire, certo, ma in questi ultimi mesi il susseguirsi di attacchi agli ebrei (perché solo di questo si tratta), è stato regolarmente accompagnato da una sottostima della matrice antisemita e del campanello d’allarme di una escalation preoccupante. Bisogna ricordarsi che in Europa l’antisemitismo non è mai stato superato, che sulle ceneri del vecchio si cumula e sedimenta quello d’importazione dei nuovi cittadini europei, e che il sentimento antiebraico è una panacea consolidata per tutte le frustrazioni da guerre e crisi economiche; non c’è dramma planetario che non venga in qualche misura attribuito allo zampino del sionismo mondiale.
Di fronte a queste realtà, che oggi si ripresentano nella forma più aggressiva, l’Europa rifiuta di vaccinarsi e tutelarsi. Come nel campo economico e finanziario, ogni paese va per conto suo, sia sotto il profilo della sicurezza che dei rapporti con Israele, e i risultati variano dai boicottaggi economici e culturali alle frontiere colabrodo per i terroristi. L’unica cosa su cui tutti sembrano d’accordo è la negazione del minuto di silenzio ai giochi olimpici di Londra in ricordo del quarantesimo anniversario della strage di Monaco ’72. Ma qualunque difesa è vana se in Svezia basta sposare un nativo per ottenere la cittadinanza; se la Bulgaria, che è storicamente abbastanza immune all’antisemitismo, non sente la necessità di controllare chi entra e chi esce dai propri confini; se la Francia preferisce attribuire la strage di Tolosa a un pazzo piuttosto che ammettere di essere uno dei paesi in cui l’antisemitismo è maggiormente radicato e diffuso; se l’Europa intera non avverte la minaccia alla propria sopravvivenza di una politica di accoglienza imbelle e indiscriminata. Il kamikaze di Burgas non ha ancora un nome, ma il governo si affretta a dichiarare senza riserve che non si tratta di un cittadino bulgaro, e la Svezia nega che possa essere un proprio connazionale di origini algerine uscito da Guantanamo nel 2004. Ma per ora non c’è alcuna certezza e le indagini proseguono. A prescindere da chi ci sia dietro l’attentato in Bulgaria, e dal perché sia stato attuato, il dato che deve far riflettere è quello che Raphael Israeli - professore di storia dell’Islam, del Medioriente e della Cina all’Università Ebraica di Gerusalemme - chiama incompatibilità tra Islam ed Europa, e quello che ne consegue. Due aneddoti vissuti e raccontati recentemente dallo stesso Israeli: nella cittadina svedese Malmo, su 300mila abitanti un terzo è musulmano e molti svedesi si sentono stranieri a casa propria, e forse lo sono, se un residente commerciante islamico ha sostenuto senza ombra di perplessità che, nonostante in Svezia si viva bene, i musulmani non ne possono accettare la bandiera in quanto è caratterizzata dal simbolo della croce. Secondo Israeli questo è un tipico esempio di incompatibilità, ma l’accademico israeliano ne cita altri, ancora più allarmanti. A Londra ha incontrato un imam yemenita, molto affabile e gentile, che a causa di un handicap fisico riceve dalle istituzioni inglesi una cospicua pensione di invalidità con la quale mantiene tutta la famiglia. Invitato ad ascoltare la preghiera del venerdì, Israeli si è recato in moschea ed ha personalmente assistito all’incitamento dell’imam a recarsi in Afghanistan ad imparare la jihad. A preghiera terminata, Israeli gli ha chiesto se non fosse contraddittorio vivere grazie alle istituzioni inglesi e poi predicare la guerra contro l’Occidente, e l’imam ha risposto che tutto è temporaneo, che tra vent’anni in Europa sventolerà la bandiera islamica, quindi perché, nel frattempo, non approfittare? L’espansionismo, sostiene Israeli, è connaturato all’Islam, che ha tentato la conquista dell’Europa dall’ottavo secolo in poi con le armi, venendo sempre sconfitto. Ora però la guerra è condotta con l’immigrazione, e tre, in particolare, sono le minacce: la crescita demografica, la riunificazione familiare e le conversioni degli europei, che sono in aumento.
Se Raphael Israeli ha ragione, è probabile che l’Europa si rialzerà dalla crisi economica, ma dal punto di vista culturale, a meno di una straordinaria presa di coscienza, è lecito temere che la sconfitta sia alle porte.

martedì 17 luglio 2012

Perché serve una rivoluzione culturale


Forse è superfluo tornare sull’argomento perché è fin troppo chiaro che la spending review non riguarda tanto tagli strutturali, quanto un cambio di destinazione di soldi pubblici che nei prossimi anni verranno spesi comunque, ma non si può non insistere sull’insensatezza di determinate scelte. E’ troppo facile usare la mannaia a caso e poi sostenere che sono le lobbies e gli interessi particolari a mettersi di traverso per proteggere il proprio orticello.
C’è indubbiamente del vero in questo, nessuno nega che l’Italia sia un paese corporativo, ma ci sono delle ragioni precise per questo, ragioni che sarà il caso di approfondire, ma procediamo per gradi. E’ apprezzabile il cambio di rotta (di forte impatto culturale, soprattutto) sugli statali, ed è giusta la razionalizzazione di uffici e servizi pubblici, ma i criteri con cui sono stati scelti i destinatari della cancellazione sono incomprensibili. Per i tribunali si è parlato di produttività, ma se si fosse proceduto con questo principio non rischierebbero uffici piccoli e ben organizzati, che forniscono buoni servizi ed hanno un oggettivo alto tasso di efficienza. E lo stesso vale per i tagli alla sanità, che riguardano posti letto, forniture farmaceutiche e convenzioni con i privati. Passi la chiusura di strutture molto piccole (anche se non di rado offrono ottimi servizi), e speriamo che non si creino disagi tali da privare qualche comunità di un ospedale nel raggio di decine di chilometri, ma per il resto non chiamatela proprio spending review.
Sprechi, disorganizzazione e politicizzazione dei vertici delle aziende ospedaliere (le tre cause principali dei costi di tali strutture) non vengono neanche sfiorati, mentre si riducono ulteriormente i già insufficienti servizi ai malati. Ha senso quando ti può succedere di arrivare al pronto soccorso di un grande ospedale romano in pericolo di vita e non avere alcuna speranza di essere ricoverato? Quando per curarti un certo tipo di lesione un caporeparto ti spiega che esiste un programma molto avanzato, in grado di calcolare al millimetro la riduzione del perimetro della ferita, ma che – non essendoci speranza che l’azienda lo compri – sta tentando di procurarselo più o meno lecitamente? O quando chiami il cup per prenotare una visita ortopedica e ti dicono che le prenotazioni sono chiuse e nessuno sa quando riapriranno, forse il prossimo anno? Questa è la sanità italiana. Un sistema disastrato che rende difficile persino finire nelle mani dei bravi medici, che pure ci sono e sono tanti.
E’ difendere il proprio orticello sostenere che i tagli ai servizi sono l’ultimo torto al cittadino da parte di uno Stato ingordo ed elefantiaco incapace di mettersi a dieta? Volete tagliare? Bene, allora controllate cosa funziona e cosa no. Fate lavorare la Corte dei Conti, abolite le province (tutte), gli enti pubblici (una miriade) inutili quando non dannosi, le consulenze esterne, gli osservatori, i gruppi di lavoro, le agenzie, le facoltà universitarie con indirizzi ridicoli nate come funghi negli ultimi anni; tagliate i fondi alle associazioni costituite sul nulla e a quelle no profit (purtroppo ce ne sono) che invece di occuparsi del bene altrui con i sussidi statali pagano feste e cene, alle fondazioni che non producono niente, alle aziende che non li meritano; mettete un freno alle autonomie, ai palazzi di rappresentanza, alle auto blu, ai convegni, a voi stessi, alle vostre spese. Non chiamate spending review tagli secchi orizzontali che non produrranno altro effetto che mettere definitivamente in ginocchio chi è ancora in piedi nonostante lo Stato.
E veniamo al corporativismo. Si potrebbero citare molte ragioni storiche per cui in Italia è così radicato, ma ci si può limitare a dire perché nessuna spending review lo sradicherà. Perché in Italia se non fai parte di qualcosa non sei niente, non esisti. E non nel senso che non sei importante o ben introdotto in ambienti elitari: nel senso che non sei in grado di ottenere e far valere quelli che sulla carta sono i tuoi diritti. C’è una differenza abissale tra chi usa amicizie e conoscenze per ottenere privilegi o per occupare posizioni che non merita, e chi sa che le liste d’attesa negli ospedali sono fatte con la matita e la gomma e se non ha un referente rischia di veder slittare il suo intervento, o quello di una persona cara, a tempo indeterminato. In Italia devi poter contare su qualcuno per avere una vita normale.
Chi si accorge dei lavoratori non iscritti a qualche sindacato? A chi interessano i problemi delle categorie che non scendono in piazza, non paralizzano il Paese o non spaccano qualche vetrina? Cosa può il singolo cittadino, da solo, contro la burocrazia e l’apparato pubblico? Se in Italia non esiste solo la mafia - intesa come criminalità organizzata - ma soprattutto una mentalità mafiosa, cioè l’idea che per ottenere le cose, anche quelle legittime, sia necessario appartenere a qualcosa, avere un amico, è perché la società civile come insieme di individui che hanno un peso specifico in quanto singoli cittadini non conta nulla. E questo è colpa dello Stato, non del dna corporativo degli italiani. E’ colpa di uno Stato che invece di fondarsi sull’individuo e la libertà dei singoli si basa sul lavoro (concetto quantomai astratto quando diventa valore fondante), e sui partiti (che infatti hanno svolto un ottimo ruolo di uffici di collocamento), ed è bravissimo a prevaricare e latitante quando si tratta di garantire, proteggere, tutelare, servire e rispettare il cittadino. Le lobbies all’italiana nascono, crescono e proliferano tra i buchi delle maglie istituzionali, e per sradicarle ci vuole una rivoluzione culturale che colpisca in primis l’apparato più corporativista del Paese: lo Stato. Altro che spending review. 

giovedì 5 luglio 2012

Cornuti e mazziati


Grazie alla lettura di Sudditi sono venuta a conoscenza di qualcosa che mai e poi mai avrei immaginato. In Italia esiste uno Statuto del contribuente, e da ben dodici anni: Legge 27 luglio 2000, n. 212. Qualcuno se ne era mai accorto? Io no. E uno Stato in cui un cittadino onesto e perbene non si accorge di avere determinati diritti, e non viene nemmeno sfiorato dall’idea della garanzia di un rapporto paritetico con le istituzioni, è uno Stato che dovrebbe porsi delle domande. Ma questa è l’Italia, una nave alla deriva in cui i topi sono talmente intontiti e drogati dal proprio potere da non provare nemmeno a salvarsi. Per non affondare del tutto bisogna leggere, arrabbiarsi e reagire, per combattere l’unica battaglia che è di per sé una rivoluzione: la battaglia delle idee.
Questo, per la vostra incredulità, è lo Statuto del contribuente, nella forma discorsiva riportata da Natale D’Amico in Sudditi:

Fin dal primo articolo viene affermato solennemente che le norme dello Statuto, adottate in attuazione della Costituzione, sono principi generali dell’ordinamento tributario, e possono essere derogate solo espressamente e mai da leggi speciali. Lo stesso articolo fissa uno stop alla pratica furbesca con la quale spesso il legislatore, con la scusa di fornire una interpretazione autentica di norme al solito complicate e ambigue, ha cambiato le carte in tavola con effetti retroattivi. Per il contribuente sarà dunque da oggi in poi molto più semplice comprendere quali norme è tenuto ad applicare. Anche le regioni e gli enti locali saranno tenuti a rispettare le regole dello Statuto.
La legge poi prosegue con la sua opera di igiene normativa: d’ora in poi le disposizioni tributarie non potranno più essere inserite, come tante volte avvenuto in passato, in leggi che parlano d’altro, e il titolo della legge che contiene disposizioni tributarie dovrà chiarire ciò di cui si parla; quando si farà rinvio ad altre disposizioni di legge non basterà indicarne la data e il numero con quella sorta di gioco dell’oca in cui si viene continuamente rinviati da una casella all’altra, ma bisognerà sintetizzare il contenuto della norma richiamata; quando si modificherà una disposizione previgente, occorrerà riportare il testo così come risultante dalle modificazioni.
Finalmente sarà possibile al contribuente conoscere a priori, prima di fare le proprie scelte, quali sono le conseguenze fiscali dei propri comportamenti; infatti, anche a prescindere dai nuovi limiti alle interpretazioni autentiche di cui si è detto, le disposizioni tributarie non potranno essere retroattive, e anzi produrranno effetti solo a partire dall’anno successivo a quello nel quale saranno approvate. In ogni caso, fra l’approvazione di una nuova norma e il momento nel quale il contribuente dovrà applicarla non potranno passare meno di due mesi. E l’amministrazione non potrà – come ha fatto più volte – prorogare i termini per i propri accertamenti.
Si ritornerà a quella antica regola di civiltà secondo la quale le norme tributarie devono essere discusse in Parlamento con tutto il tempo necessario a un serio approfondimento delle loro conseguenze, e con le garanzie di trasparenza della discussione tipiche del dibattito parlamentare; tant’è vero che d’ora in poi i decreti legge non potranno istituire nuovi tributi, né estendere l’applicazione dei tributi esistenti.
Sarà un preciso dovere dell’amministrazione consentire al contribuente un’agevole e completa conoscenza delle disposizioni legislative e amministrative vigenti, anche predisponendo testi coordinati e ponendoli gratuitamente a disposizione di tutti.
Così pure, l’amministrazione non potrà disconoscere un credito preteso da un contribuente, né potrà irrogare una qualunque sanzione se non dopo aver informato l’interessato delle proprie obiezioni al suo comportamento o alla sua pretesa.
I modelli di dichiarazione dovranno essere predisposti per tempo ed essere comprensibili, così recita la legge, “anche ai contribuenti sforniti di competenze in materia tributaria”, e ciascuno dovrà essere messo nelle condizioni di “adempiere le obbligazioni tributarie con il minor numero di adempimenti e nelle forme meno costose e più agevoli”.
In nessun caso potranno essere richiesti al contribuente documenti che siano già in possesso della stessa amministrazione finanziaria, o di qualunque altra amministrazione pubblica. Se il contribuente avrà dimenticato di allegare alle proprie dichiarazioni un qualunque documento, l’amministrazione non potrà pretendere alcunché finché non avrà richiesto il documento mancante, lasciando all’interessato un “termine congruo”.
Ogni atto dell’amministrazione dovrà essere chiaramente motivato; e se vi si citerà un altro atto, questo dovrà essere allegato. Dovrà sempre essere indicato a chi ci si potrà rivolgere per chiarimenti, o a chi si potrà far ricorso.
Avrà fine quella pratica prepotente che consente all’amministrazione di esigere una somma di danaro dallo stesso contribuente verso il quale, per altra causa, è debitrice: recita lo Statuto che “l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”. E nulla potrà esser chiesto al contribuente una volta decorso l’ordinario termine di prescrizione stabilito dal codice civile.
Come sempre avviene in un rapporto tra pari, il contribuente avrà il diritto di far valere una causa di forza maggiore che gli ha impedito l’adempimento degli obblighi tributari.
In nessun caso il contribuente potrà subire sanzioni ove la sua violazione dipenda da “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”, e neppure quando si tratti di violazioni delle norme puramente formali.
Per aiutare la soluzione dei casi dubbi, il contribuente avrà il diritto di interpellare l’amministrazione riguardo l’applicazione delle norme tributarie a un caso concreto. Se l’amministrazione non risponderà entro 120 giorni, il contribuente avrà il diritto di applicare l’interpretazione delle norme che egli stesso ha prospettato nell’interpello.
Le ispezioni fiscali negli uffici e nelle fabbriche potranno farsi solo nel caso ce ne sia effettivamente necessità, e quindi non per acquisire informazioni che l’amministrazione potrebbe reperire diversamente; dovranno svolgersi durante l’orario di lavoro, dovranno turbare il meno possibile lo svolgimento dell’attività del contribuente, e l’accertamento non potrà durare più di 30 giorni, solo in casi di particolari difficoltà prorogabili a 60. Per i contribuenti minori, la durata massima degli accertamenti sarà dimezzata.
In ogni regione verrà istituito il Garante del contribuente, a tutela dei diritti di tutti e a garanzia dell’applicazione concreta dei principi affermati nello Statuto.

Sì, è davvero una legge italiana. Solo che i cittadini non lo sanno e allo Stato che calpesta quotidianamente le leggi che esso stesso emana non accade nulla. Tremate, gente.