Ci
sono poche parole, al mondo, che sono state più sfruttate, abusate e citate a
sproposito, fino a stravolgerne il significato e a farne dimenticare le origini
storiche, del termine liberalismo. Un concetto che è alla base delle moderne
democrazie occidentali e che ha permeato di sé tutto il XVIII e XIX secolo,
ponendosi alla guida ideale delle rivoluzioni che hanno portato alla nascita
degli Stati di diritto; un’idea, una filosofia di vita, una visione dell’uomo e
dei rapporti sociali che – riallacciandosi al filone dei diritti individuali sanciti
già dagli antichi greci e romani, e alla tradizione giusnaturalista – ha posto
alla base della propria dottrina politica la concezione dell’inviolabilità e
inalienabilità di alcuni diritti naturali e universali dell’uomo: libertà,
uguaglianza, proprietà e vita. Corollario inevitabile della tutela di questi
diritti è l’esercizio della libertà nella legge, di fronte alla quale tutti gli
uomini sono uguali, e pertanto garanzia del limite all’arbitrio e alla
sopraffazione del singolo individuo.
A
questi pronunciamenti, elaborati nella Gran Bretagna della seconda rivoluzione
industriale da filosofi come John Locke, David Hume e Adam Smith (padre del
liberismo, la teoria economica del libero mercato e parte integrante della
dottrina liberale), e della Glorious Revolution, dalla quale era nata - primo
caso nella storia - una monarchia costituzionale, fecero da riscontro e complemento
i principi dell’illuminismo francese, portatori di una visione filosofica
improntata alla supremazia della ragione sull’ignoranza e la superstizione, in
particolar modo la teoria della separazione dei poteri di Montesquieu. L’insieme
dei principi del liberalismo inglese e dei valori dell’illuminismo francese è
ciò che nel diciottesimo secolo venne comunemente chiamato liberalismo, il
movimento intellettuale della borghesia europea a sostegno delle battaglie
contro l’assolutismo monarchico e i privilegi dell’aristocrazia e del clero. Se
la rivoluzione francese, con tutte le sue contraddizioni, è al contempo il
punto di arrivo e di partenza del liberalismo continentale, quella americana è
lo specchio delle differenze con tale modello. E’ chiaro che i contesti in cui
tali ideali si sono sviluppati erano molto diversi tra loro, e le conseguenze
non potevano che riprodurli: quando scoppia la rivoluzione francese, nel 1789, in Inghilterra vige
una monarchia costituzionale già da cento anni, e quando paesi come l’Italia e la Germania arrivano a
conquistare l’unità nazionale, gli Stati Uniti, che hanno meno di un secolo di
vita, sono già uno Stato federale con una forte identità e una Costituzione
talmente avanzata da essersi mantenuta intatta nonostante i molti emendamenti
che ne hanno sanato alcune iniziali contraddizioni. Ed è proprio la peculiarità
della nascita e della storia d’America a dare un significato diverso alla
parola liberal, liberale. Una differenza che arriverà a connaturare i liberali
europei come l’opposto dei liberal statunitensi. Ma perché?
I
figli d’Inghilterra, che colonizzarono gli immensi territori americani, erano
per la maggior parte dei perseguitati per motivi politici o religiosi, e
incoraggiati dalla corona britannica all’emigrazione per ragioni economiche
inerenti il contrasto alla presenza sul continente americano di altre potenze
coloniali, quindi i problemi che si trovarono ad affrontare, una volta sbarcati
nel nuovo mondo, riguardavano sostanzialmente l’organizzazione sociale e la
creazione di istituzioni e leggi che regolassero la vita e la convivenza degli
abitanti delle colonie. Non esisteva una suddivisione in classi, un potere
politico di stampo assolutistico, un clero o un’aristocrazia privilegiati
contro cui combattere. Anche se fu un processo faticoso, e le differenze
economiche e sociali tra le colonie erano piuttosto ampie, l’autonomia politica
di cui godevano dimostra che l’America è nata liberale perché i suoi fondatori
erano già informati ai principi del liberalismo inglese, i quali, uniti ai riferimenti
morali del puritanesimo, costituivano un nucleo di valori condivisi che
confluirono nella costituzione della futura repubblica federale degli Stati
Uniti d’America. Se l’America, dunque, è nata liberale e liberista (la guerra
d’indipendenza, d’altronde, era scaturita proprio dalle imposizioni fiscali e
dalle restrizioni commerciali ed economiche che la madrepatria inglese imponeva
alle proprie colonie), e i principi del liberalismo erano sanciti dalla sua
costituzione, è chiaro che l’esigenza della creazione di partiti che si
richiamassero espressamente a tale dottrina non era sentita, e le differenze
che caratterizzano ancora oggi i propri rappresentanti politici non riguardano
l’essere o meno liberale, ma, semmai, i differenti modi di esserlo che
scaturiscono dalla teoria generale. Ma chi sono, allora, i liberal americani?
In Europa sono identificati con i socialdemocratici, gli eredi del socialismo
europeo riformatosi dopo la caduta del muro di Berlino, ma è evidente che, in
un paese che ha tra le sue caratteristiche principali il rifiuto del comunismo
e delle teorie socialiste – che d’altronde sarebbero in contrasto con i suoi
fondamenti liberali – il paragone non regge. Perché il termine liberal, nella
storia statunitense, affonda le sue radici nelle teorie del liberalismo
progressista americano sviluppatesi nel primo ventennio del XX secolo, a loro
volta figlie delle idee del liberalismo sociale nato nel Regno Unito tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma si è affermato negli anni
Trenta con la politica di Franklin Delano Roosevelt. Entrato in carica nel
1933, il nuovo presidente si trovò ad affrontare le conseguenze della
gravissima crisi economica del 1929, ed improntò la sua politica ad un nuovo
corso, il New Deal, volto a risollevare le sorti dell’economia nazionale
alleviando al contempo le sofferenze di una popolazione duramente colpita dalla
disoccupazione e dalla mancanza di strumenti di ammortizzazione sociale. Per
ottenere tali obiettivi, egli assegnò al governo federale un ruolo di primo
piano nell’economia nazionale che non aveva precedenti nella storia americana,
e da tale interventismo nacquero enti, istituti e riforme che nell’arco di un
decennio riportarono effettivamente il grado di benessere del paese ai livelli
precedenti la grande Depressione. Dopo il New Deal, l’idea che il perseguimento
della “libertà dalla necessità” potesse giustificare l’intervento positivo del
governo centrale nell’economia, rimane una costante della visione politica
liberal, che in questo senso, sostanzialmente, si differenzia da quella dei
piccoli partiti liberali europei, i quali, operando in un contesto di spiccato
interventismo e assistenzialismo statale, hanno sempre cercato di far valere le
ragioni dell’economia di mercato e del principio di sussidiarietà. Ma la distanza
dai socialdemocratici rimane comunque molto ampia, in quanto – anche in pieno
New Deal – i liberal hanno sempre avversato il socialismo e l’idea che sia
compito dello stato garantire a tutti eguali risultati. In una parola, i
liberal americani sono l’ala sinistra del liberalismo classico, così come i
conservatori ne sono l’ala destra, anche se non mancano all’interno di entrambi
gli schieramenti posizioni che si rifanno per alcuni aspetti all’una o
all’altra fazione.
Se
queste sono le ragioni storiche per cui il termine liberal non trova una
definizione univoca tra le sponde dell’Atlantico, ed anzi i conservatori più
intransigenti lo considerano un termine dispregiativo, mentre in Europa è
semplicemente sinonimo di sinistra socialdemocratica, così come il Vecchio
Continente l’ha conosciuta, i differenti modi di essere liberali non hanno
risparmiato l’Europa, dove questi si sono divisi tra seguaci del liberalismo
classico e del capitalismo liberista, e radicali, promotori della massima
espansione dei diritti civili e di un misurato intervento statale nell’economia
per favorire una maggiore giustizia sociale, mentre negli Stati Uniti i radical
sono su posizioni di estrema sinistra, e coloro che si ritengono i veri eredi
del liberalismo classico e dell’economia di mercato liberista sono definiti
libertarian o neoliberal. A rendere le cose più difficili, attualmente, vi è la
complessità delle società moderne, l’irrompere sulla scena politica di
tematiche etiche e sociali come la preservazione dell’ambiente, l’eutanasia, la
fecondazione assistita, i limiti alla ricerca medica e scientifica,
l’allargamento di determinati diritti a determinate minoranze, e molte altre
questioni su cui i liberali europei, come quelli americani, si sono divisi,
creando una sorta di movimento trasversale dei temi etici in cui si ritrovano,
a seconda delle questioni poste, liberal e conservatori, radical e libertarian,
destra, sinistra e centro. Ma il paradosso più grande è che – nonostante dopo
la seconda guerra mondiale i principi politici liberali si siano generalmente affermati
come base dottrinale di tutte le democrazie europee, i partiti che ad essi si
ispiravano sono pressoché scomparsi, inglobati dai partiti di massa,
soprattutto di matrice socialista o democratico-cristiana, che sono stati
storicamente avversari del liberalismo. Cadute le ideologie, tutti si sono
professati liberali, a prescindere dalla propria storia e percorso politico, o
da cosa con questo termine esattamente intendessero, e il risultato è la
perdita di una riferimento storico preciso, tanto che definirsi liberale, in
Europa, oramai può significare tutto e niente. A differenza degli Stati Uniti,
dove il termine liberal designa sì una certa politica e un determinato
schieramento, ma, come si è visto, i valori liberali sono realmente percepiti
come base comune di tutta la storia e la politica americana, alla storia
politica europea manca un comun denominatore in grado di dare senso alla
dichiarazione di appartenenza al liberalismo. O forse, come sosteneva il
filosofo Lucio Colletti, nel substrato culturale della rivoluzione francese,
figlio delle idee di Voltaire e Rousseau, che hanno lasciato un segno
indelebile nella visione politica europea, vi erano i germi del totalitarismo,
piuttosto che del liberalismo. Fatto sta che, al di là di una generica adesione
ai principi liberali dei diritti politici come la libertà di parola, pensiero,
stampa e religione, in Europa i liberali – o sedicenti tali – non si muovono
sulla base di una visione comune, ma di contingenze, congiunture, mentre in
America vi sono temi sui quali, a parte frange estreme da una parte e
dall’altra, l’essere originariamente liberali prevale su tutto: quando sono in
gioco le fondamenta stesse del liberalismo, i diritti naturali e inalienabili
dell’uomo. Come durante la guerra fredda la minaccia del comunismo sovietico ha
posto i liberali americani di qualsiasi corrente e partito su un unico fronte,
così oggi, davanti alla minaccia del terrorismo internazionale, al di là di
questioni di opportunità politica e strategie militari che dividono l’opinione
pubblica, i liberali di tutte le estrazioni si sentono nuovamente chiamati a
combattere una battaglia che ha a che fare con le ragioni stesse della loro
esistenza. Il dibattito, comunque, è aperto, e la speranza che si arrivi ad una
definizione trans-atlantica del termine liberale dipenderà anche dalla capacità
degli europei di riscoprirne il significato originario.