venerdì 30 marzo 2012

L'Europa è un continente liberale? Qualche delucidazione sul concetto.


Ci sono poche parole, al mondo, che sono state più sfruttate, abusate e citate a sproposito, fino a stravolgerne il significato e a farne dimenticare le origini storiche, del termine liberalismo. Un concetto che è alla base delle moderne democrazie occidentali e che ha permeato di sé tutto il XVIII e XIX secolo, ponendosi alla guida ideale delle rivoluzioni che hanno portato alla nascita degli Stati di diritto; un’idea, una filosofia di vita, una visione dell’uomo e dei rapporti sociali che – riallacciandosi al filone dei diritti individuali sanciti già dagli antichi greci e romani, e alla tradizione giusnaturalista – ha posto alla base della propria dottrina politica la concezione dell’inviolabilità e inalienabilità di alcuni diritti naturali e universali dell’uomo: libertà, uguaglianza, proprietà e vita. Corollario inevitabile della tutela di questi diritti è l’esercizio della libertà nella legge, di fronte alla quale tutti gli uomini sono uguali, e pertanto garanzia del limite all’arbitrio e alla sopraffazione del singolo individuo.
A questi pronunciamenti, elaborati nella Gran Bretagna della seconda rivoluzione industriale da filosofi come John Locke, David Hume e Adam Smith (padre del liberismo, la teoria economica del libero mercato e parte integrante della dottrina liberale), e della Glorious Revolution, dalla quale era nata - primo caso nella storia - una monarchia costituzionale, fecero da riscontro e complemento i principi dell’illuminismo francese, portatori di una visione filosofica improntata alla supremazia della ragione sull’ignoranza e la superstizione, in particolar modo la teoria della separazione dei poteri di Montesquieu. L’insieme dei principi del liberalismo inglese e dei valori dell’illuminismo francese è ciò che nel diciottesimo secolo venne comunemente chiamato liberalismo, il movimento intellettuale della borghesia europea a sostegno delle battaglie contro l’assolutismo monarchico e i privilegi dell’aristocrazia e del clero. Se la rivoluzione francese, con tutte le sue contraddizioni, è al contempo il punto di arrivo e di partenza del liberalismo continentale, quella americana è lo specchio delle differenze con tale modello. E’ chiaro che i contesti in cui tali ideali si sono sviluppati erano molto diversi tra loro, e le conseguenze non potevano che riprodurli: quando scoppia la rivoluzione francese, nel 1789, in Inghilterra vige una monarchia costituzionale già da cento anni, e quando paesi come l’Italia e la Germania arrivano a conquistare l’unità nazionale, gli Stati Uniti, che hanno meno di un secolo di vita, sono già uno Stato federale con una forte identità e una Costituzione talmente avanzata da essersi mantenuta intatta nonostante i molti emendamenti che ne hanno sanato alcune iniziali contraddizioni. Ed è proprio la peculiarità della nascita e della storia d’America a dare un significato diverso alla parola liberal, liberale. Una differenza che arriverà a connaturare i liberali europei come l’opposto dei liberal statunitensi. Ma perché?
I figli d’Inghilterra, che colonizzarono gli immensi territori americani, erano per la maggior parte dei perseguitati per motivi politici o religiosi, e incoraggiati dalla corona britannica all’emigrazione per ragioni economiche inerenti il contrasto alla presenza sul continente americano di altre potenze coloniali, quindi i problemi che si trovarono ad affrontare, una volta sbarcati nel nuovo mondo, riguardavano sostanzialmente l’organizzazione sociale e la creazione di istituzioni e leggi che regolassero la vita e la convivenza degli abitanti delle colonie. Non esisteva una suddivisione in classi, un potere politico di stampo assolutistico, un clero o un’aristocrazia privilegiati contro cui combattere. Anche se fu un processo faticoso, e le differenze economiche e sociali tra le colonie erano piuttosto ampie, l’autonomia politica di cui godevano dimostra che l’America è nata liberale perché i suoi fondatori erano già informati ai principi del liberalismo inglese, i quali, uniti ai riferimenti morali del puritanesimo, costituivano un nucleo di valori condivisi che confluirono nella costituzione della futura repubblica federale degli Stati Uniti d’America. Se l’America, dunque, è nata liberale e liberista (la guerra d’indipendenza, d’altronde, era scaturita proprio dalle imposizioni fiscali e dalle restrizioni commerciali ed economiche che la madrepatria inglese imponeva alle proprie colonie), e i principi del liberalismo erano sanciti dalla sua costituzione, è chiaro che l’esigenza della creazione di partiti che si richiamassero espressamente a tale dottrina non era sentita, e le differenze che caratterizzano ancora oggi i propri rappresentanti politici non riguardano l’essere o meno liberale, ma, semmai, i differenti modi di esserlo che scaturiscono dalla teoria generale. Ma chi sono, allora, i liberal americani? In Europa sono identificati con i socialdemocratici, gli eredi del socialismo europeo riformatosi dopo la caduta del muro di Berlino, ma è evidente che, in un paese che ha tra le sue caratteristiche principali il rifiuto del comunismo e delle teorie socialiste – che d’altronde sarebbero in contrasto con i suoi fondamenti liberali – il paragone non regge. Perché il termine liberal, nella storia statunitense, affonda le sue radici nelle teorie del liberalismo progressista americano sviluppatesi nel primo ventennio del XX secolo, a loro volta figlie delle idee del liberalismo sociale nato nel Regno Unito tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma si è affermato negli anni Trenta con la politica di Franklin Delano Roosevelt. Entrato in carica nel 1933, il nuovo presidente si trovò ad affrontare le conseguenze della gravissima crisi economica del 1929, ed improntò la sua politica ad un nuovo corso, il New Deal, volto a risollevare le sorti dell’economia nazionale alleviando al contempo le sofferenze di una popolazione duramente colpita dalla disoccupazione e dalla mancanza di strumenti di ammortizzazione sociale. Per ottenere tali obiettivi, egli assegnò al governo federale un ruolo di primo piano nell’economia nazionale che non aveva precedenti nella storia americana, e da tale interventismo nacquero enti, istituti e riforme che nell’arco di un decennio riportarono effettivamente il grado di benessere del paese ai livelli precedenti la grande Depressione. Dopo il New Deal, l’idea che il perseguimento della “libertà dalla necessità” potesse giustificare l’intervento positivo del governo centrale nell’economia, rimane una costante della visione politica liberal, che in questo senso, sostanzialmente, si differenzia da quella dei piccoli partiti liberali europei, i quali, operando in un contesto di spiccato interventismo e assistenzialismo statale, hanno sempre cercato di far valere le ragioni dell’economia di mercato e del principio di sussidiarietà. Ma la distanza dai socialdemocratici rimane comunque molto ampia, in quanto – anche in pieno New Deal – i liberal hanno sempre avversato il socialismo e l’idea che sia compito dello stato garantire a tutti eguali risultati. In una parola, i liberal americani sono l’ala sinistra del liberalismo classico, così come i conservatori ne sono l’ala destra, anche se non mancano all’interno di entrambi gli schieramenti posizioni che si rifanno per alcuni aspetti all’una o all’altra fazione.
Se queste sono le ragioni storiche per cui il termine liberal non trova una definizione univoca tra le sponde dell’Atlantico, ed anzi i conservatori più intransigenti lo considerano un termine dispregiativo, mentre in Europa è semplicemente sinonimo di sinistra socialdemocratica, così come il Vecchio Continente l’ha conosciuta, i differenti modi di essere liberali non hanno risparmiato l’Europa, dove questi si sono divisi tra seguaci del liberalismo classico e del capitalismo liberista, e radicali, promotori della massima espansione dei diritti civili e di un misurato intervento statale nell’economia per favorire una maggiore giustizia sociale, mentre negli Stati Uniti i radical sono su posizioni di estrema sinistra, e coloro che si ritengono i veri eredi del liberalismo classico e dell’economia di mercato liberista sono definiti libertarian o neoliberal. A rendere le cose più difficili, attualmente, vi è la complessità delle società moderne, l’irrompere sulla scena politica di tematiche etiche e sociali come la preservazione dell’ambiente, l’eutanasia, la fecondazione assistita, i limiti alla ricerca medica e scientifica, l’allargamento di determinati diritti a determinate minoranze, e molte altre questioni su cui i liberali europei, come quelli americani, si sono divisi, creando una sorta di movimento trasversale dei temi etici in cui si ritrovano, a seconda delle questioni poste, liberal e conservatori, radical e libertarian, destra, sinistra e centro. Ma il paradosso più grande è che – nonostante dopo la seconda guerra mondiale i principi politici liberali si siano generalmente affermati come base dottrinale di tutte le democrazie europee, i partiti che ad essi si ispiravano sono pressoché scomparsi, inglobati dai partiti di massa, soprattutto di matrice socialista o democratico-cristiana, che sono stati storicamente avversari del liberalismo. Cadute le ideologie, tutti si sono professati liberali, a prescindere dalla propria storia e percorso politico, o da cosa con questo termine esattamente intendessero, e il risultato è la perdita di una riferimento storico preciso, tanto che definirsi liberale, in Europa, oramai può significare tutto e niente. A differenza degli Stati Uniti, dove il termine liberal designa sì una certa politica e un determinato schieramento, ma, come si è visto, i valori liberali sono realmente percepiti come base comune di tutta la storia e la politica americana, alla storia politica europea manca un comun denominatore in grado di dare senso alla dichiarazione di appartenenza al liberalismo. O forse, come sosteneva il filosofo Lucio Colletti, nel substrato culturale della rivoluzione francese, figlio delle idee di Voltaire e Rousseau, che hanno lasciato un segno indelebile nella visione politica europea, vi erano i germi del totalitarismo, piuttosto che del liberalismo. Fatto sta che, al di là di una generica adesione ai principi liberali dei diritti politici come la libertà di parola, pensiero, stampa e religione, in Europa i liberali – o sedicenti tali – non si muovono sulla base di una visione comune, ma di contingenze, congiunture, mentre in America vi sono temi sui quali, a parte frange estreme da una parte e dall’altra, l’essere originariamente liberali prevale su tutto: quando sono in gioco le fondamenta stesse del liberalismo, i diritti naturali e inalienabili dell’uomo. Come durante la guerra fredda la minaccia del comunismo sovietico ha posto i liberali americani di qualsiasi corrente e partito su un unico fronte, così oggi, davanti alla minaccia del terrorismo internazionale, al di là di questioni di opportunità politica e strategie militari che dividono l’opinione pubblica, i liberali di tutte le estrazioni si sentono nuovamente chiamati a combattere una battaglia che ha a che fare con le ragioni stesse della loro esistenza. Il dibattito, comunque, è aperto, e la speranza che si arrivi ad una definizione trans-atlantica del termine liberale dipenderà anche dalla capacità degli europei di riscoprirne il significato originario.

mercoledì 21 marzo 2012

Aggrapparsi alla Storia


“Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. Queste parole, pronunciate dal noto filosofo Karl Popper in tempi in cui l’Europa non doveva ancora confrontarsi quotidianamente con i problemi legati al fenomeno della globalizzazione, e della multietnicità della società, sono ancora di grande attualità. Anche se, oggi, è il concetto stesso di tolleranza ad essersi sbiadito nelle mille sfumature delle diverse declinazioni che ad esso vengono applicate. Libri, giornali, intellettuali, politici, opinionisti, politologi, sociologi, psicologi, preti, volontari, docenti; fiumi di parole e di discorsi scorrono e ci sommergono ogni giorno in una polemica continua tesa a dare un significato definitivo alla parola tolleranza. E più se ne parla, più la cronaca ci restituisce la realtà di una insofferenza profonda che si manifesta in atti di vera e propria intolleranza perpetrati, soprattutto, dai giovani: xenofobia, omofobia, razzismo e violenza sono le cifre del disagio di una Europa che nell’arco di pochi anni si è accorta, improvvisamente, che una politica di accoglienza indifferenziata non è stata sufficiente nemmeno a creare i presupposti dell’integrazione e della creazione dei nuovi cittadini europei. In Francia, come in Inghilterra o in Germania – paesi che hanno già una lunga tradizione di immigrazione, ma il fenomeno riguarda anche il resto d’Europa – esistono quartieri che sono diventati i nuovi ghetti delle società moderne, luoghi che con la città che li ospita condividono solo il territorio, riproducendovi di fatto lo stile di vita e applicando le leggi vigenti nei propri paesi d’origine. Più che una società multietnica, quella europea è un’entità disseminata di microcosmi che le vivono dentro senza farne parte fino in fondo. Anche se questo non è vero per tutte le etnie e gli immigrati che abitano oggi il continente europeo, i contrasti e le frizioni scaturite dalla convivenza con determinate comunità hanno oramai diviso l’opinione pubblica in due visioni della tolleranza opposte ed estremizzate: da una parte l’ideologizzazione di un senso di colpa, la convinzione di dover espiare il peccato del colonialismo e del nazismo, con la conseguente predilezione per una politica di accoglienza, indulgenza e giustificazionismo anche di fronte a manifestazioni di violenza e sprezzo della civiltà occidentale, che sarebbero sempre frutto di errori precedenti. Dall’altra, il sopravvento della paura, della diffidenza, la percezione dell’inanità totale delle istituzioni di fronte all’aggressività con cui gli immigrati impongono il proprio modo di essere, il timore che le nostre leggi e la nostra libertà siano usate per sopraffarci, l’idea che sia in atto uno scacco all’Occidente, un’invasione che - anche solo per ragioni numeriche – farà, nell’arco di poche generazioni, piazza pulita dei principi e dei valori politici, morali e religiosi fondanti la civiltà occidentale, con la conseguente volontà di porre un freno all’immigrazione e la rivendicazione del diritto di cacciare gli stranieri sgraditi dal proprio territorio. In mezzo, un’Europa alle prese con il terrorismo internazionale, in grave difficoltà nel definire una propria identità che sia egualmente sentita da tutti i paesi dell’Unione, e per lo più succube di una forma pavida di tolleranza, che la induce facilmente a rinnegare la libertà di opinione di chi lancia pubblicamente l’allarme di una temuta islamizzazione del continente. Ma come mai l’Europa, che pure è il prodotto storico dell’incontro, dello scontro e del miscuglio di idee, merci, razze e religioni, sembra prigioniera di un atteggiamento anarchico, che è forse alla base di un senso di incertezza e disorientamento che rischia di trasformarsi, nella migliore delle ipotesi, in una chiusura insofferente? Dove guardare per ripensare la politica di integrazione europea?
Magari alle origini della propria storia, all’antica Roma. Può essere una civiltà schiavista un modello attuale di integrazione? Per molti aspetti sì, perché - nella sua lunghissima storia - né la monarchia, la repubblica o l’impero romano hanno mai conosciuto e applicato il concetto di razzismo. Anzi. Fin dai primi insediamenti, i romani erigono un luogo sacro dedicato al Dio Asilo, in cui accolgono profughi, fuggiaschi e schiavi da ovunque essi provengano, e continuano a considerare, nell’arco dei secoli, questo luogo motivo di orgoglio, tanto da tramandarne la memoria orale e conservarne i resti. Ma la politica che ci consente di capire veramente l’atteggiamento dei romani verso “gli altri”, è quella che l’ormai grande impero applica alle province a lui sottomesse. In un contesto in cui o si conquistava o si era conquistati, Roma invade praticamente tutto il mondo antico, ma è consapevole che la forza delle armi non è sufficiente a conservare il potere. Attua così una politica di cooptazione delle elite dei popoli conquistati, cui viene facilmente concessa la cittadinanza e che possono ambire a salire i vertici del potere, tanto che la classe dirigente diventa presto multietnica, e comincia, pian piano, a farsi abitare dal mondo, a portarlo dentro di sé, romanizzandolo. Fino a un certo punto, però. Perché Roma non impone alle province sottomesse i propri usi e costumi, e lascia in vigore tutte le leggi locali che non siano in contrasto con i principi fondamentali del diritto romano, ma allo stesso tempo è pronta a usare il pugno di ferro in caso di rivolte e insurrezioni. Una delle province che preoccupa di più “Roma caput mundi” è la Giudea, un focolaio continuo di ribellioni, ma la proverbiale durezza dei romani nei confronti degli abitanti di questa terra, gli ebrei, non è minimamente dettata da antisemitismo, quanto da ragioni squisitamente politiche, dalla necessità di riportare la provincia all’ordine e all’obbedienza. E il concetto vale egualmente per tutti gli altri. Con questo tipo di politica il mondo romano diventa presto una stratificazione di identità in cui, tuttavia, le pietre miliari della romanità permeano di sé popoli e culture; diventare romano significa appartenere ad un insieme di idee, leggi, valori e principi la cui forza di attrattiva non ha eguali nel mondo antico. Il desiderio di ottenere la cittadinanza romana, con tutti i diritti che questa comporta, è forte, e Roma non si fa pregare. Le vie per ottenerla sono varie, al punto che, unico caso nella Storia, la concessione della cittadinanza può essere frutto dell’azione di un singolo cittadino, e addirittura per gli schiavi la strada verso la pienezza dei diritti non è particolarmente lunga. Il liberto, infatti, lo schiavo liberato (e Prisco ci ricorda quanto fosse facile a Roma liberare uno schiavo, lo si poteva fare anche per testamento e non implicava pratiche burocratiche farraginose), era un quasi cittadino, ma il proprio figlio diventava automaticamente cives a pieno titolo, cui non era preclusa nessuna possibilità, neanche la carriera politica. Un’altra strada percorribile verso la cittadinanza era l’appartenenza all’esercito. Per legge, dopo venticinque anni di servizio, si veniva congedati con una cospicua gratifica economica e la cittadinanza di diritto; grazie a questa politica, attuata fin dall’inizio, i reparti ausiliari non sono composti da cittadini romani, ma in età repubblicana l’esercito di Roma conta una tale quantità di cives che nel suo esercito non vi sono mercenari.
A questo punto, però, non ci si può esimere dal chiedersi quali elementi abbiano consentito alla più grande potenza dell’antichità di trasformare milioni di persone a lei sottomesse in soldati che la servirono lealmente. Cosa aveva Roma in più, ad esempio, della Grecia? Tre cose, sostanzialmente: la tolleranza verso la religione, gli usi e i costumi altrui; il totale disinteresse per il concetto di stirpe, la paura di contaminare la purezza del sangue, della razza, idea che invece ossessionava gli ateniesi, e la proposizione di una forte identità. A questi elementi non può non aggiungersi quella che è passata alla Storia come la più grande invenzione di Roma: la codificazione del concetto di diritto come insieme di norme che costituivano l’ordinamento giuridico alla base della vita dei cittadini, ma che non mancava di prevedere una serie di tutele per coloro che cives ancora non erano. I romani, insomma, consideravano la propria cultura al centro del mondo e non per niente questa è fondamento della civiltà occidentale, ma non per questo ritenevano che ciò che era buono e giusto per Roma dovesse esserlo necessariamente per gli altri. Più semplicemente, i romani non conoscevano il concetto di superiorità della razza, non attribuivano alla propria religiosità la rivelazione della verità, non adottarono mai politiche discriminatorie per motivi etnici, né persecuzioni di questo tipo, non intervennero legislativamente per impedire i matrimoni misti, né la nascita di un bambino meticcio era considerata una cosa strana e meno che mai fonte di degenerazione razziale. Allo stesso modo, di molti soldati, che pure si dichiaravano orgogliosamente romani, si poteva capire l’origine dai culti religiosi che continuavano liberamente a praticare. Roma era una grande città multietnica dove era possibile incontrare gente proveniente da tutto il mondo, e una società talmente aperta che nel 212 d.c. l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza praticamente a tutti gli abitanti dell’impero.
Tutto questo, naturalmente, non le impediva di essere schiavista, conquistatrice, e, all’occorrenza, dominatrice spietata. Ma nessun parallelismo avrebbe senso decontestualizzando l’oggetto del paragone dal periodo storico in cui questo ha vissuto e operato. In cosa, dunque, l’Europa di oggi potrebbe trarre insegnamento dal modo in cui l’antica Roma si rapportava agli stranieri? Si è parlato della politica che i romani attuavano verso le popolazioni da loro conquistate, ma non si sa molto del trattamento riservato agli immigrati, a coloro che a Roma ci andavano spontaneamente per stabilirvisi, anche se non c’è ragione di credere che i modi per ottenere la cittadinanza fossero diversi. E’ anche vero, però, che la tolleranza dimostrata da Roma verso usi e costumi ritenuti scandalosi è applicabile fino a un certo punto da un’Europa che, nell’arco di molti secoli e al costo di milioni di vite umane, ha distillato una serie di valori politici e morali che considera universali e ai quali non è, o non dovrebbe essere, disposta a rinunciare: la democrazia, la parità tra uomo e donna, la libertà di stampa, opinione, espressione, confessione e associazione, le garanzie a tutela delle minoranze etniche, religiose, linguistiche, e molto altro. Ma la civiltà romana ha dominato la scena mondiale per oltre duemila anni anche e soprattutto grazie all’orgoglio che l’essere un cittadino romano comportava, ad una forte identità che garantiva senso di appartenenza, condivisione dei diritti, dei doveri e delle finalità di Roma, ad un corpo legislativo che fissava in modo inequivocabile i limiti della libertà individuale a tutela di quella di tutti i cittadini, ad un modo di guardare a se stessi come centro del mondo senza che questo minasse il diritto degli altri di considerarsi allo stesso modo. A tutto questo, però, Roma univa l’intransigenza verso chiunque cercasse di sopraffarla, tradirla, distruggerla. Ed è questo che manca all’Europa di oggi: la definizione di un’identità che vada oltre la retorica e che abbia la forza di attrarre ai suoi valori i futuri cittadini europei; la capacità di far rispettare le sue leggi senza compromessi con i propri sensi di colpa, e la determinazione a sopravvivere, la capacità di accogliere veramente chi vuole integrarsi e contrastare chi intende sopraffarla. Oggi nessuno è disposto ad immaginare che il modus vivendi europeo, per non dire occidentale, potrebbe essere una parentesi della Storia, ma sarebbe utile ricordare che, tra i molti fattori che concorsero alla caduta dell’impero romano d’Occidente, un ruolo non secondario fu giocato dall’incertezza politica, da una forte crisi economica e dalla decadenza morale che aveva minato la forza di Roma dall’interno, finendo con lo svilire la propria identità e soccombendo alla calata di popoli meno evoluti ma molto più determinati.

giovedì 15 marzo 2012

Tra l'incudine e il martello


Saranno mesi duri quelli che separano gli italiani dalle elezioni del prossimo anno. Le avvisaglie di ciò che ci attende sembrano essersi concentrate negli ultimi giorni, e lo spettacolo è deprimente. Da una parte i partiti, i quali, affatto preoccupati degli scandali e delle figuracce che vanno cumulando, si sono già lanciati in una campagna elettorale dai toni e dagli argomenti vecchi, come se la crisi, lo spread e l’orlo del baratro non ci fossero mai stati e, soprattutto, come se il pericolo fosse definitivamente scampato e potessimo buttarci tutto alle spalle. Niente di più falso, ma loro fanno bella mostra della propria ignoranza e protervia e rialzano la testa, rimarcando i limiti di azione concessi al governo Monti (come se temi quali la giustizia e la Rai non investissero fortemente anche il campo economico), e buttando sul tavolo elettorale polemiche non troppo sentite, in questo momento, come il matrimonio gay. Peccato che nel contempo il mondo e gli italiani siano profondamente cambiati. Gli italiani, in particolare. Che vivono ormai tra l’incudine di una sfiducia irrecuperabile nei confronti di una classe politica chiusa nel suo piccolo mondo antico, e il martello di un governo che comincia a spaventare per metodi e convinzioni. Le seconde, soprattutto. L’idea che gli italiani abbiano il dna del furbetto evasore che va definitivamente stanato e punito, violando la privacy e il diritto all’innocenza fino a prova contraria di tutti, non è soltanto un obbrobrio filosofico e giuridico, è anche il prodotto di cecità storica. Posto che è innegabile la realtà di una diffusione capillare di comportamenti al limite della legalità, è altrettanto incredibile che per risolvere determinati problemi i governi abbiano sempre preferito colpire la punta dell’iceberg invece di cercarne le cause profonde e porre rimedio alla radice. E’ facile sparare a zero sul cittadino invece di chiedersi come mai siamo diventati campioni mondiali nell’arte di arrangiarsi. Tra pochi mesi arriverà l’Imu e il fondo del barile sarà stato grattato. Come già denunciato da organi ben più importanti di qualche associazione di categoria, la pressione fiscale è forse la più alta del mondo e la considerazione del cittadino e dei suoi diritti inviolabili è tra le più basse; siamo già in recessione e per quante chiacchiere e pacche sulle spalle ci si possa dare con la Merkel la fine del tunnel è lontanissima. Perché lo spread è sceso e gli squali sono stati momentaneamente saziati (e il merito è indiscutibilmente di Monti), ma tutto questo non ha nulla a che fare con l’economia reale, con il mercato, con l’investire, il produrre, vendere, consumare, inventare, creare. Perché l’economia senza il supporto filosofico e giuridico di una visione liberale dell’individuo e della società si chiama finanza, e la finanza è un imbuto che ingoia tutto, un gioco per pochi abili speculatori che si arricchiscono senza l’utilità sociale della diffusione del benessere.
Abbiamo sentito parlare per mesi di equità tra i cittadini, ma quale equità può garantire uno Stato che è in assoluto il più iniquo di tutti verso il cittadino, e che si comporta come il suo principale nemico? Dove sono i soldi che la pubblica amministrazione deve da mesi, se non anni, a migliaia di piccole e medie imprese? Dove sono gli sgravi, gli aiuti, le detrazioni per incentivare la crescita e – non ultima – l’onestà del contribuente? Dove sono i servizi a fronte di una pressione fiscale stellare? Perché nessuno sembra rendersi conto che se gli italiani non fossero migliori della propria classe politica e amministrativa questo paese sarebbe andato all’aria già da tempo? Quali sono le idee, le visioni ad ampio raggio che muovono questo governo di pur brillanti tecnici, che sembrano tuttavia non saper concepire l’individuo e la società al di fuori dello schema della rigidità e invasività statale? Perché nessuno vuole dare agli italiani l’opportunità della libertà, che è cosa ben diversa dalla licenza, di cui il paese abbonda e che serve solo ai delinquenti, e vedere una volta per tutte se sapremmo abbracciare ed essere degni di un vero liberalismo economico e sociale? Perché nessun partito e nessuna istituzione è disposto a ingaggiare una grande battaglia delle idee, che sarebbe l’unica rivoluzione possibile e auspicabile in Italia come forse, per molti aspetti, in tutta Europa? Perché mi sento costretta a guardare con orrore all’idea che fra un anno ci saranno le elezioni?