Girare
e parlare con la gente. Facile. Per capire quale sia l’attuale realtà italiana
alla vigilia di elezioni politiche delicatissime come quelle del 24 e 25
febbraio, basterebbe entrare in qualche negozio e fare qualche domanda. Sempre
che il negozio in questione ci sia ancora. Chiunque può misurare la febbre del
paese in questi giorni. Bisogna solo guardarsi intorno. Enormi centri
commerciali aperti tre anni fa in pompa magna ridotti a bunker di cemento dove
sopravvivono un negozio o due, magari un Mc Donald’s e una caffetteria, con
buona pace di investimenti milionari andati in fumo per mancato guadagno,
impossibilità di pagare le spese, o perché, più sinteticamente, il gioco non
vale la candela. Chiudono persino le pizzerie al taglio, fino a poco tempo fa
considerate miniere d’oro, e vendere un’attività - magari per ripianare i
debiti contratti con le banche per aprire - in questo momento è semplicemente
impossibile. Parola del giovane, nuovo parrucchiere che ha perso il lavoro dopo
la chiusura dell’importante salone per il quale lavorava, e si è messo in
proprio un paio di mesi fa. Come? Con i soldi di papà, ovviamente, perché la banca
credito non ne fa a nessuno, nemmeno a un giovane con oltre dieci anni di
lavoro alle spalle e dei risparmi da investire in una propria attività. Niente
da fare.
Il
dato secondo cui chiudono circa mille imprese al giorno è palpabile, visibile,
fisico. E le ragioni di questa “carneficina” sono talmente evidenti da lasciare
molto perplessi sulla possibilità di una ripresa nei prossimi mesi. Pesa, su
qualsiasi speranza per il futuro prossimo, l’incubo di una campagna elettorale
da paura. Nel vero senso della parola. E’ difficile persino districarsi mentalmente
nella foresta dell’offerta politica in campo. Da un lato, purtroppo, la storia
che si ripete da vent’anni: Berlusconi, la sinistra e le reciproche alleanze;
dall’altra, il nuovo che di nuovo non ha più nulla: Monti e la coalizione di
centro che lo sostiene. Nuovo in effetti Monti lo era, un anno fa. Per questo
le aspettative nei suoi confronti erano enormi, ma buona parte di quel credito si
è consumata nella ritrovata credibilità internazionale dell’Italia, che è un
merito indiscutibile della persona, oltre che del ruolo e dei rapporti
ricoperti e coltivati precedentemente in Europa, mentre il resto è andato in
fumo con una discesa (o salita, fate voi) in campo sponsorizzata da due degli
elementi più conservatori e meno riformisti di sempre della politica italiana:
Fini e Casini. Il primo ancora alla ricerca del suo posto nel mondo, il secondo
dedito da almeno sei anni alla tessitura del grande centro, convinto di aver
finalmente trovato il cavallo e lo sponsor giusti per varare la nave: Monti e
Montezemolo. Sarebbe questa la novità delle prossime elezioni, la società
civile che si presta alla politica per il cambiamento, e che per tale nobile
scopo è pronta ad allearsi con tutti, come il buon Casini insegna da tempo. Proprio
Monti, infatti, che da settimane addossa ora al Pd, ora al Pdl, la
responsabilità degli scarsi risultati del suo governo, riferendosi una volta
alla mancata volontà della sinistra di portare la riforma del lavoro fino in
fondo, un’altra alla paternità della destra dell’odiosa Imu e del cretinissimo
redditometro, evitando tuttavia di spiegare perché ci siamo sciroppati un anno
di governo tecnico se le decisioni da prendere le aveva già prese il governo
precedente, e se il blocco politico e sindacale meno incline alle riforme si è
ugualmente imposto, è ora disponibile ad allearsi tanto con il Pd (senza
Vendola) quanto con il Pdl (senza Berlusconi). Per fare cosa, poi, una volta
arrivati a Palazzo Chigi? Mistero della fede. I contenuti, infatti sono i
grandi assenti di tutta la campagna elettorale. Certo, si parla di tasse ed
economia, le note più dolenti in questo momento in Italia, ma tutto finisce in
vaghe promesse e accuse reciproche. Perché nessuno dei tre leader delle
maggiori formazioni politiche è credibile. Non Berlusconi, al quale è lecito
chiedere perché dovrebbe realizzare con un nuovo esecutivo quello che non ha
fatto nelle precedenti esperienze governative; non Monti, che, nonostante un
Parlamento sotto lo scacco dell’emergenza, e un governo esonerato dal giudizio
elettorale, ha scelto la strada a tempo determinato dell’impoverimento per il
risanamento, ed ora non si capisce perché, con una eventuale maggioranza
certamente meno ampia della precedente, dovrebbe prediligere politiche
nettamente diverse. Ma anche Bersani è poco credibile. Dopo aver combattuto
contro l’unica ventata di riformismo e rinnovamento che si fosse vista in
Italia da anni, Matteo Renzi, aver riaffermato il primato della nomenklatura e
della tradizione di partito assicurando ai peggiori nemici del sindaco di
Firenze l’ennesimo seggio in Parlamento, ed aver scelto l’alleanza alla
sinistra del Pd, non si vede proprio in che modo il leader dei democratici
potrebbe tenere insieme, in un eventuale governo, le istanze di Sel e della
Cgil con la promessa coerenza all’azione del governo Monti e ai vincoli
europei. Per non parlare naturalmente di tutto il resto. Quel resto fatto di
politica estera, sicurezza, giustizia, società civile, Unione Europea, visione
di sé e del proprio ruolo nel mondo. Tutte bazzecole scientemente escluse dal
dibattito di una campagna elettorale da paura.
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