Alzi
la mano chi aveva creduto che nessuno, dopo i risultati elettorali, avrebbe
potuto tirare diritto come se nulla fosse, perché il mio braccio è già disteso.
Ci sono cascata. Avevo manifestato persino un certo ottimismo perché ritenevo
impossibile che i partiti non prendessero atto che il voto ha segnato un punto
di non ritorno, un aut aut dal quale dipende integralmente il futuro di questo
paese, o – meglio - la possibilità o meno che un futuro ci sia. E invece no.
Uno
si sarebbe aspettato che Pier Luigi Bersani, dopo la non vittoria (che nella
lingua della società civile si chiama batosta elettorale), da un lato si
rendesse disponibile a qualsiasi soluzione per garantire quantomeno un governo
di transizione, sistemare quelle tre o quattro cose fondamentali per tornare
alle urne, e lanciare un segnale di cambiamento nella vita pubblica e nell’economia;
dall’altro, che si dimettesse dal suo ruolo di segretario del Pd per favorire
il rinnovamento del partito sapientemente bloccato quando pensava di avere la
vittoria in tasca. Non ci vuole un genio della politica per capire che non ci
sono più i margini per le chiacchiere e i sofismi; e lui, invece, che cosa fa?
Forte del premio di maggioranza di una legge elettorale tanto vituperata quanto
prudentemente conservata e adesso oscenamente sfruttata, si mette a lanciare
diktat. Per essere uno che non ha mai detto una cosa chiara e tonda durante
tutta la campagna elettorale, adesso punta i piedi e scandisce paroloni. Per
dire che un accordo di governo con il Pdl non ci sarà mai, e piatire il
sostegno di Grillo (che ha insultato, generosamente ricambiato, per mesi e mesi)
su un programma di governo di otto punti. Otto punti di cui un paese sull’orlo
del baratro, naturalmente, non può fare a meno. Una legge contro la mafia (ma
perché, essere mafiosi attualmente è legale?), una contro la corruzione (che può
anche essere migliorata ma c’è già), una sul conflitto di interessi (che ci
vuole indubbiamente, ma non è la priorità), cittadinanza a oltranza (fondamentale
per la ripresa?), diritti alle coppie omosessuali (giustissimo, ma nella
situazione attuale non può essere all’apice di un’agenda di governo), diritto
allo studio (ammetto di non sapere chi in Italia non ne goda), e interventi per
una politica più sobria e per l’emergenza economica e sociale (le uniche cose
veramente urgenti, su cui però non è dato sapere di più).
In
un momento così delicato, in cui la miccia dell’insofferenza sociale può
esplodere da un momento all’altro, il segretario del Pd lancia questo
programmino vago e inutile e sfida a sostenerlo quello che fino a ieri era il
mostro dell’antipolitica e del populismo pseudo-fascista. Incredibile. Rivendica
il suo primato ma passa la palla a Grillo, e si innervosisce pure perché
sarebbe il leader del M5S a dover dire cosa voglia fare, altrimenti - minaccia
impetuoso - si va tutti a casa. Ma dov’era Bersani mentre Grillo urlava per
tutte le piazze italiane – e senza tanti giri di parole – quello che voleva
fare? Perché continua a “sfidarlo” quando è ovvio ed è già stato ribadito dieci
volte che i grillini non daranno la fiducia ad un eventuale governo Bersani? E
d’altronde, come si fa anche solo ad immaginarlo quando è del tutto evidente
che i partiti stanno al M5S come un’astronave ad un asteroide in rotta di
collisione? Se la prima aggiusta la rotta, il secondo sparisce. Grillo
l’incoerenza non se la può permettere, non è nel suo interesse. E’ convinto che
un governo di larghe intese soffrirebbe abbastanza la pressione grillina da non
osare, ad esempio, eleggere un nuovo presidente della Repubblica che non sia di
sufficiente gradimento popolare, ma è anche fiducioso che il Pd e il Pdl
finirebbero per logorarsi definitivamente, permettendo al M5S, alle quantomai prossime
elezioni, di governare direttamente da soli. E questo è uno scenario che
andrebbe molto oltre l’utilità storica della presenza grillina in Parlamento, e
per scongiurare il quale era indispensabile che la lezione delle urne venisse
capita.
Il
Pd sta inanellando una serie di errori che sono potenzialmente letali per
l’Italia. Prima il boicottaggio di Renzi, che è stato un utilissimo alibi anche
per la ricandidatura di Berlusconi, e ora la smania di governare sapendo di non
avere i numeri e gli strumenti adeguati al dramma della situazione attuale.
Perché la realtà, incredibilmente, ancora non gli entra in testa. E la realtà è
fatta di un paese in cui quindici mesi di dissanguamento economico sono serviti
a far aumentare la spesa pubblica del 3% e a prosciugare i risparmi degli italiani.
Il tessuto produttivo è ridotto all’osso e invoca disperato un allentamento
della tenaglia fiscale, e quello sociale è sull’orlo dell’esplosione perché ha
finito i soldi. Siamo alla frutta, e loro fissano le consultazioni a un mese di
distanza dal voto. Ma il paese non ce l’ha un mese da spendere dietro ai
giochetti di palazzo. Se le ultime speranze verranno deluse, le conseguenze potrebbero
essere tali da far apparire la Grecia una prospettiva ineludibile, e questa
volta niente e nessuno ne sarebbe risparmiato. Neanche loro.
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